La Pax israeliana di Benjamin Netanyahu

Sono sempre più chiare e dichiarate le ambizioni del capo del Governo israeliano Benjamin Netanyahu, di voler strutturare un “nuovo Medio Oriente”. Ma quale era il “vecchioMedio Oriente?” In più occasioni ho ricordato la storica concezione geopolitica della “questione d’Oriente”, frutto della dissoluzione dell’Impero ottomano formalizzatasi nel 1922, e legata alla determinazione del nuovo ordine mondiale nato dal crollo, nella stessa fase storica, dell’Impero zarista, Austroungarico, e Germanico. Ma questo “assetto” tracciato sulla carta, quindi pianificato nel 1916 con il Patto segreto britannico-francese, Sykes-Picot, nacque già con enormi falle.

Brevemente, la più evidente e causa di instabilità diffusa e persistente, fu la non creazione del Kurdistan, spartito tra Turchia, Iran, Iraq e Siria, regione che era rappresentata da una cultura, da una etnia, da una lingua e da una storia comune. Più avanti gli Stati Uniti, fuori per ragioni storiche dal Sykes-Picot, sentirono gravare profondamente la loro relativa scarsità di interessi nel sistema ex Impero ottomano, soprattutto dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. In pratica la questione d’Oriente cede il passo a quella che ho definito la “seconda questione d’Oriente” scaturita dopo il 2 agosto 1990 quando il presidente iracheno Saddam Hussein invase, supportato da oscuri suggerimenti, il Kuwait e da quel momento nell’arco di poco più di 10 anni gli Stati Uniti annienteranno la vecchia struttura mediorientale dilagando in tutta l’area. Comunque una ristrutturazione regionale per definizione origina instabilità e sorprese strategiche, confermando ugualmente gli obiettivi e le tendenze radicate nel programma. Lo scenario del Medio e Vicino Oriente assume un ulteriore scossone dopo l'11 settembre 2001 e il consequenziale intervento statunitense in Iraq, un palcoscenico dove subentra il terrorismo e la seguente guerra al terrore, la “Primavera araba”, 2011, e le numerose guerre civili in Libia, Afghanistan, Yemen, Siria, dove l’Occidente non ha avuto un ruolo pienamente coinvolgente, evidenziando la sua impotenza e acutizzato la competizione di potere a livello locale.

In questo quadro c’è la visione geopolitica israeliana, che presenta una prospettiva molto ristretta e tutt’altro che empatica, ma con un coinvolgimento crescente. Quindi, l’obiettivo di Netanyahu di creare un nuovo Medio Oriente, include anche la visione di un nuovo impegno militare statunitense in una regione dove Donald Trump preferirebbe sottoscrivere contratti economici redditizi. Tuttavia il presidente Usa non favorendo, con la discutibile adozione della “strategia della tregua”, il definitivo collasso del regime iraniano, comunque drasticamente indebolito, non ha nemmeno lasciato che si sviluppassero le condizioni affinché l’oscuro governo degli Ayatollah e ora anche dei Pasdaran, ovvero i “guardiani della rivoluzione”, potesse essere costretto ad abbandonare il potere. Anche alla luce delle crescenti proteste di piazza che si stanno manifestando a Teheran. 

Ma il Medio Oriente di ieri era anche una regione in cui la debolezza degli Stati arabi e della diplomazia hanno lasciato campo libero a Teheran che ha potuto, sotto la bandiera della Mezzaluna sciita, e dell’Asse della Resistenza, frammentare il territorio arabo e la sua società. Il nuovo punto di partenza per ripensare al futuro della regione è stato il 7 ottobre 2023, data dei feroci attacchi di Hamas in Israele, data dell’inizio della fine di Gaza, e inizio della tragedia umanitaria dei palestinesi della Striscia di Gaza. Prima di questa data, che ha spinto verso una evoluzione degli equilibri politici la regione, il Medio e Vicino Oriente era quello degli Accordi di Abramo del 2020, con Emirati Arabi Uniti, e Bahrein – e prudenti bussanti come gli Al-Saud – accordo di cooperazione e intelligence con il Marocco 2021, e la normalizzazione dei rapporti con Egitto (1979) e Giordania (1994). Tuttavia, fu un meccanismo di normalizzazione che però escludeva i veri nemici dello Stato israeliano. Ma il Medio e Vicino Oriente di “ieri” era anche quello del regime siriano di Bashar al-Assad, deposto l’8 dicembre 2024 e rifugiatosi a Mosca, al quale è subentrato Ahmad Al-Shara’, un ex jihadista, diventato nazionalista e sembra democratico, l’unico nel mondo arabo a non aver condannato, e nemmeno espresso lievi considerazioni, sull’attacco di Israele contro l’Iran e che ha ottenuto i primi di luglio la fine delle sanzioni da parte degli Stati Uniti, che hanno decretato il termine, con poche condizioni, della fine del Syrian sanctions program.

Comunque, in due anni e mezzo lo Stato ebraico si è affermato, grazie alla sua superiorità militare, come potenza dominante nella regione. Ha colpito l’Iran e i suoi alleati dell’Asse della Resistenza, schiacciato Hamas nella Striscia di Gaza, annichilito Hezbollah in Libano, poi insieme agli Stati Uniti ha bombardato i ribelli Houthi in Yemen e le milizie filo-iraniane presenti in Siria e Iraq. Poi, dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad ha paralizzato la rete regionale degli alleati di Teheran. Infine ha colpito la testa della piovra, l’Iran, con la discutibile e interrotta prematuramente “guerra dei 12 giorni”.

Tuttavia, una pace conquistata con l’uso delle armi richiede poi una risoluzione politica e diplomatica, e il disegno israeliano del “nuovo Medio Oriente” prevede anche questo, quindi negoziati con gli Ayatollah e con Hamas, salvo che i due “sistemipseudo politici non vengano annichiliti prima, cambiando magari gli interlocutori.

Aggiornato il 12 luglio 2025 alle ore 10:41