
La partita sui dazi con Washington rimane ancora aperta. All’indomani del rinvio ad agosto dell’entrata in vigore delle tariffe per l’Unione europea, a Palazzo Chigi si continua a respirare un clima di “ottimismo cauto”. La convinzione, ribadita nei colloqui riservati, è che si riuscirà a raggiungere un’intesa con gli Stati Uniti, evitando così un impatto eccessivamente gravoso per l’economia europea. E in particolare per l’Italia. Nella giornata di ieri, la premier Giorgia Meloni si è confrontata con Ursula von der Leyen, Emmanuel Macron e nuovamente con Friedrich Merz. Il capitolo più urgente resta quello delle tensioni commerciali, su cui i leader condividono – assicurano fonti vicine alla presidente del Consiglio – la volontà di chiudere “positivamente” la trattativa con la controparte americana.
La finestra per negoziare resta aperta. Nei piani alti del governo si ragiona ancora sul possibile compromesso, quell’ipotetico 10 per cento che circola fin dall’inizio delle discussioni. “Non commentiamo le ipotesi”, frena il ministro della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida, reduce da un viaggio negli Stati Uniti per difendere gli interessi dell’agricoltura italiana, settore minacciato da possibili tariffe fino al 17 per cento imposte da Washington. Nel frattempo, le imprese vivono in apnea. E le opposizioni continuano il lungo e strenuo attacco alla linea dell’Esecutivo. Luigi Marattin invoca un’accelerazione sull’accordo con il Mercosur, mentre Elly Schlein attacca apertamente un approccio definito “imbarazzante”. La segretaria dem porta a favore della sua tesi le stime di Confindustria: un eventuale combinato tra dazi e svalutazione del dollaro potrebbe tradursi in un calo dell’export italiano pari a “20 miliardi” e in “118mila posti di lavoro a rischio”.
Ma anche all’interno della maggioranza non mancano le voci dissonanti. Il leghista Claudio Borghi, ad esempio, torna a sostenere che sarebbe stato “più vantaggioso” un negoziato separato, ricordando come “chi decide quali dazi mettere sono gli Stati Uniti”, e citando il precedente del 2020, quando “il vino francese fu gravato da dazi e quello italiano no”. Una strategia, tuttavia, che non è mai stata sul tavolo per la premier. Il commercio internazionale resta infatti competenza esclusiva della Commissione europea. E agli occhi di Donald Trump, l’Unione europea continua a essere percepita come un blocco unico. Di qui i margini di manovra, che Roma ha tentato di esplorare per mantenere aperto un “dialogo” transatlantico, al fine di orientare la trattativa in senso favorevole all’intera Ue. Non si esclude che Meloni torni sul tema con von der Leyen anche giovedì a Roma, in occasione della Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina.
Tra gli esperti, c’è anche chi ha fiducia nel Governo. “L’accordo con Donald Trump? Io sono ottimista”. Così Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici, in un’intervista a La Stampa in cui spiega la sua fiducia nel fatto che “alla fine, agli Stati Uniti non convenga chiedere cose impossibili. In più, noi europei siamo deboli perché divisi, e quindi cederemo a richieste che non saranno esagerate”. Secondo Cottarelli, non è praticabile la strada di uno scudo finanziato con fondi Pnrr per sostenere i comparti produttivi danneggiati: “No. I dazi sono imposti da altri Paesi e fanno parte dei normali rischi d’impresa. D’altro canto, noi esportiamo in tanti altri Stati: i costi saranno riassorbiti. Sono contrario ai fondi pubblici per i ristori. Vorrebbe dire far pagare ai contribuenti italiani i consumi degli americani. Una follia”. Quanto al ruolo di Giorgia Meloni, l’economista sgombra il campo: “Non è certo Meloni il problema. Questa è una trattativa che viene condotta a livello di Unione europea. Purtroppo, 27 Paesi hanno spesso idee diverse, ed è questo che indebolisce l’Europa, non certo l’atteggiamento della presidente del Consiglio”.
Aggiornato il 09 luglio 2025 alle ore 14:31