
Perché il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha fatto sottoscrivere un accordo di pace, il 27 giugno, tra il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo? La politica estera di Trump da molti “esperti” viene definita con forti tendenze isolazioniste e interventista, ma non sorprendentemente ha avuto un ruolo tutt’altro che isolazionista e meno che mai interventista in una regione africana in guerra da 30 anni. Tuttavia, questa pace negoziata dagli Stati Uniti tra due Paesi in conflitto “permanente” non è stata ispirata da generose e utopiche spinte pacifiste, ma dai profondi interessi che Washington ha verso le strategiche risorse naturali di queste Nazioni. Quindi minerali essenziali per le richieste della vorace tecnologia Usa, ma anche un fronte alla invadenza quasi silenziosa, ma dilagante, dell’economia cinese.
The Donald probabilmente non è al dentro delle questioni profonde che dividono drammaticamente i destini di queste due umanità, ma quello di cui è a conoscenza sono gli aspetti generali che caratterizzano le violenze tra la Rdc e il Ruanda, ovvero che la guerra, mai dichiarata, dura da circa 30 anni, che è un conflitto combattuto utilizzando spesso la “sofisticata” ma micidiale arma del machete, e che sono morti, non solo a colpi di machete, alcuni milioni di persone. La confusa, e ricca di criticità, pausa dei combattimenti voluta da Trump tra Iran ed Israele, fa comprendere quanto il concetto di ottenere una tregua attraverso la forza della guerra sia una delle linee guida della politica dell’inquilino della Casa Bianca, ben applicata dall’eccentrica strategia statunitense. Gli uomini di fiducia del Presidente – ma visto quanto accaduto a Elon Musk la fiducia può essere anche transitoria – hanno operato affinché gli obiettivi economici fossero prioritari su altre questioni. Il raggiungimento di questi obiettivi gioca un ruolo importante e quindi non esclude l’uso della forza, anzi a volte viene utilizzata come fattore propedeutico al convincimento. Teheran insegna, al di là della propaganda del regime degli Ayatollah. In realtà, le azioni diplomatiche adottate da Trump sono più mirate a un cessate il fuoco piuttosto che ad avviare un percorso di Pace, ma è anche vero che la pace può procedere per gradi.
Il presidente statunitense ha dovuto ridimensionare, ma cerca di non darlo a vedere, le sue capacità di convincimento spese sui tavoli più critici dello scacchiere delle crisi internazionali, inciampando, abbastanza di frequente, sui due grandi temi che aveva assicurato risolvere in poco tempo dopo la sua elezione: Gaza e Ucraina. Tuttavia i suoi uomini, come Steve Witkoff, imprenditore e inviato speciale in Medio Oriente, sono affaccendati sui fronti dai destini incrociati: Gaza, Iran, Russia e Ucraina.
Comunque, come sopra segnalato, in uno scenario dai contorni sempre meno definibili, il 27 giugno il ministro degli Esteri ruandese Olivier Nduhungirehe e il ministro degli Esteri congolese Thérèse Kayikwamba Wagner, hanno sottoscritto a Washington in presenza del segretario di Stato americano Marco Rubio un accordo di pace. Così, con il suo resistente egocentrismo, il presidente degli Stati Uniti non totalmente a conoscenza della questione africana, ha pubblicato sul suo account X, che l’accordo firmato tra i due politici africani è un “meraviglioso trattato”, che sicuramente condurrà i due Paesi a terminare un conflitto lungo tre decenni, e che tale operazione pacifista meriterebbe il premio Nobel per la Pace. Stesso riconoscimento che ha manifestato di meritare – ma che non gli sarà riconosciuto, aggiunge – per l’opera di pacificazione tra India e Pakistan circa gli ultimi scontri per il Kashmir del maggio scorso, in questo caso autoproclamatosi artefice della tregua, ruolo sminuito dalla Cina. Ma Trump si è anche dichiarato determinate in altre aree in fibrillazione continua come Etiopia ed Egitto per la questione acque del Nilo, portata ridotta dalla diga etiope Gerd, ovvero Grand ethiopian renaissance dam; o come Serbia e Kossovo per questioni legate alle ataviche tensioni, una crisi latente che sistematicamente riesplode.
Tuttavia, è indubbio che l’operazione del 27 giugno sia stata strategica. Avere raggiunto questo primo risultato su una questione estremamente complessa, che si interseca intimamente con gli equilibri e la sicurezza degli Stati confinanti, come l’Uganda, facilita per gli Stati Uniti il percorso verso una corsa globale diretta ai minerali strategici, di cui tutta la regione è estremamente ricca. Così Washington riesce, per ora, dove l’Unione africana e le organizzazioni regionali hanno senza troppe sorprese fallito. Brevemente, l’operazione pacificatoria prevede quattro fasi: entro il 27 luglio il controllo e monitoraggio delle Fdlr, Forze democratiche per la liberazione del Ruanda, formate quasi interamente da Hutu; quindi una pianificazione delle azioni militari tra le Fardc, Forze Armate della Rdc e le truppe ruandesi. Poi, una azione della durata prevista di 15 giorni, tesa a individuare le posizioni delle Fdlr. Infine quella operativa, e estremamente delicata: per tre mesi, l’esercito congolese sarà sul terreno con l’obiettivo di disarmare i gruppi paramilitari coinvolti nei combattimenti.
Il tutto non sarà semplice, in quanto elementi delle Fdlr sono sparsi sia nelle aree controllate dalle Fardc che in quelle controllate dal M23, movimento 23 marzo, composto da Tutsi e che non hanno partecipato a queste trattative, rifiutandosi inoltre di deporre le armi. Il rischio di nuovi scontri nei prossimi mesi è quindi concreto. Comunque, a fine luglio ci sarà l’incontro che potrebbe mettere una pietra angolare alla delicata struttura di pace costruita da Trump. Un summit tra i due presidenti, il ruandese Paul Kagame e l’omologo Rdc Félix Tshisekedi. Tuttavia, non va escluso che anche questo accordo di pace tra due Stati che hanno pagato un pedaggio in vite umane enorme, e sono frazionati da numerosi gruppi armati, si dimostri come un nuovo fallimento.
Aggiornato il 07 luglio 2025 alle ore 13:19