
Per l’ideologia woke e affini gli immigrati costituiscono una “risorsa”. Assunto indubbiamente valido a beneficio dei profughi economici stessi che migrano in Occidente a ondate di decine di milioni in meno di un decennio; ma certamente falso dal punto di vista delle comunità che li ospitano. Per i Paesi europei, infatti, la bilancia “dare-avere” è completamente sbilanciata a favore di chi, come i migranti, riceve assistenza sotto forma di incentivi e facilitazioni fiscali, sussidi, servizi pubblici a carico dello Stato, con particolare riferimento a sanità, scuola e trasporti. Completamente falsa, poi, è la favola wokist, terzo mondista e multiculturalista, del bilanciamento demografico, per cui l’immigrazione serve a riequilibrare il bassissimo tasso di fertilità dei Paesi occidentali che non fanno più figli. Assunto falso quest’ultimo, per almeno due aspetti: il primo legato al breve periodo; il secondo a quello medio-lungo. Innanzitutto, pesa il fenomeno dilagante del lavoro nero, pressoché a totale appannaggio degli immigrati irregolari e di quelli che, anche se regolarizzati, non hanno un contratto di lavoro, per cui non sono soggetti (almeno parzialmente) a pagare le tasse allo Stato ospite. Sono proprio i volumi importanti delle rimesse degli immigrati, che avvengono in contanti e sfuggono ai controlli fiscali e valutari, a rappresentare il primo fattore in assoluto a sfavore dell’immigrazione irregolare. Queste situazioni contributive irregolari o inesistenti sono destinate a durare per parecchi anni, soprattutto nel caso di immigrati che hanno famiglie numerose all’estero, anche se la cosa riguarda molti giovani immigrati celibi o nubili, sui quali le famiglie di origine hanno investito con grandi sacrifici tutti i loro risparmi e risorse comuni per farli venire in Europa, con i così detti viaggi della speranza.
Il falso mito wokist dell’immigrazione aperta, che ristorerebbe la nostra decrescita demografica, è dovuto al fatto più volte analizzato che, una volta costituito il nucleo familiare nella nuova patria europea, gli immigrati smettono di fare più figli delle famiglie autoctone, a causa del costo elevato della vita, che non consente di andare oltre uno, o al massimo due figli per coppia. Tanto più che tutti gli osservatori internazionali sull’immigrazione in Europa registrano come i giovani immigrati di seconda, e soprattutto di terza generazione, adottino gli stessi comportamenti dei loro coetanei indigeni. Così, si abbandonano le tradizioni di origine, che tendono a esaltare i privilegi e i valori etico-morali di una famiglia numerosa, sostituendo a questi ultimi (proprio come tutti gli altri loro coetanei) i piaceri edonistici e individualistici della società dei consumi e dei social network. Tanto più che i giovani immigrati di generazioni successive scontano ancora di più degli altri un mercato del lavoro giovanile completamente stravolto, in cui per tutta la vita esistono solo dei “lavoretti”, in mancanza di una formazione post-universitaria ad alto livello, nella sempre più accelerata rarefazione dei contratti regolari a tempo determinato e indeterminato per l’occupazione giovanile. E tanto più, come si vedrà dall’esempio francese, per i giovani immigrati naturalizzati che vogliano mettere su famiglia, si pone il problema gravissimo del costo degli alloggi e dei mutui per l’acquisto, praticamente inagibili per chi non può mostrare una busta paga e un’occupazione stabile a supporto.
Ora, le circostanze suddette portano alla seguente, drammatica conclusione in vista di un orizzonte prossimo da qui al 2050, sintetizzabile nel termine di “terzo mondializzazione dell’Europa” (al netto delle teorie sulla “sostituzione etnica”, a questo punto del tutto irrilevanti), caratterizzata da una sterminata massa-lavoro a bassa qualificazione e bassi salari, alla quale si contrappone la crescita esponenziale delle grandi ricchezze high-tech, maturate soprattutto al di fuori del Vecchio Continente, in Asia e in America. Ragionevolmente, allo stato dei fatti, l’attuale e futura migrazione economica non potrà mai rappresentare un fattore né sostanziale, né secondario per sostenere la sfida tecnologica che ci viene dal resto del mondo. Quindi, non c’è di conseguenza da nutrire nessuna speranza, per come si stanno evolvendo le cose nella Ue, di poter competere da qui in futuro con gli immensi giacimenti di materia grigia presenti in Cina e negli Stati Uniti, soprattutto nei domini della numerizzazione delle attività industriali e d’impresa; dell’Intelligenza artificiale e della componentistica elettronica evoluta. Immaginando che nel 2050 la popolazione immigrata rappresenti il 60 per cento dei residenti della Ue, i trend attuali ci dicono che nessuno potrà più togliere ormai alla Cina il primato assoluto nelle energie rinnovabili, che vede la sostituzione progressiva e inarrestabile degli idrocarburi e delle benzine con la trazione elettrica per gli autoveicoli, alleggerendo così la Terra dall’inquinamento che oggi la soffoca.
Ora, nell’esempio francese, in base all’ultimo rapporto dell’Oid (Osservatorio dell’Immigrazione e della Demografia), è proprio l’immigrazione a instaurare un circuito vizioso nocivo nel mercato del lavoro e nell’economia francesi, in quanto aggrava i problemi strutturali dell’impiego in Francia e degrada i conti pubblici, penalizzando indirettamente i settori esposti della sua economia. Questo perché esistono differenze importanti di formazione e produttività tra immigrati e nativi, in quanto tutte le analisi sociologiche e statistiche indicano che i primi lavorano, oggettivamente, meno dei secondi. Se è vero che l’immigrazione non è all’origine delle difficoltà strutturali dell’economia francese, è pur vero che le aggrava tutte, con costi importanti per l’assistenza pubblica! Questo perché solo il 63,4 per cento degli immigrati in età da lavoro ha una occupazione effettiva, contro il 69,5 per cento dei nativi. Mentre per i Paesi sviluppati, Usa, Australia e Giappone compresi, la media di occupazione degli immigrati è del 71,8 per cento. Gioca a netto sfavore di Francia e Belgio il fattore destabilizzante del “separatismo comunitario”, per cui si assiste a un’auto-segregazionismo delle comunità immigrate, che ha effetti significativamente negativi sul mercato del lavoro e sulla sicurezza interna. I “neet” (coloro che non sono inseriti in circuiti di formazione-lavoro e che non studiano) di seconda e terza generazione di immigrati erano stimati al 24 per cento nel periodo 2020-21, il più elevato nell’ambito dei Paesi occidentali e secondo solo al Belgio. Morale: l’immigrazione fa scendere il Pil (almeno in Francia) del 3 per cento, e non viceversa!
Aggiornato il 04 luglio 2025 alle ore 10:46