Trump: un conflitto tra fini e mezzi

I democratici gli hanno lasciato il lavoro sporco

Al momento del suo insediamento come presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha dovuto confrontarsi con il crescente debito pubblico americano che si è innalzato specie dopo la crisi di Lehman Brothers. Nel 2008 il debito era di 10.100 miliardi di dollari per arrivare oggi al tetto dei 37mila miliardi di dollari. Gli interessi del debito sono esplosi durante la presidenza di Joe Biden passando dai 530 miliardi di dollari del 2020 a un ammontare che supera oggi i mille miliardi di dollari e che sembra crescere in modo iperbolico. Gli Usa spendono di più di quanto incassano e oggi nei primi mesi del 2025 a fronte di 3.100 miliardi di dollari di incassi hanno un debito di quasi 4.200 miliardi di dollari. Questo dissesto finanziario da tempo previsto per chi lo voleva vedere è stato coperto durante le elezioni presidenziali in cui i democratici sembra che puntando su inadeguate figure come Joe Biden da tempo sofferente e la debole Kamala Harris abbiano, volutamente, perdere per lasciare il “lavoro sporco” a Trump il quale ha dovuto prendere il toro per le corna, con il rischio di essere incornato da un debito difficilmente comprimibile.

A fronte di questo debito che sta crescendo in modo più che proporzionale a quello degli incassi l’azione di Trump è stata quella di abbattere la spesa pubblica e di aumentare con i dazi le entrate fiscali che grazie a questa manovra sono cresciuti di quasi 60 miliardi di dollari. Ma il varo dei dazi ha avviato un effetto sulla spesa pubblica e sulla spesa delle famiglie. Il deficit commerciale degli Usa si è ridotto del 16 per cento per la prima volta da decenni e ha avuto un andamento regressivo come da decenni non si verificava. Le finalità del Governo Usa sono chiare ma i mezzi scelti non sembrano in grado di sostenere la spinta alla riduzione del deficit. È utile capire la dinamica dell’esplosione del debito e quanto questo possa essere contenuto dai programmi dell’amministrazione Trump. Recentemente è stato portato all’approvazione della camera ma non ancora del senato il “Big Beautiful Bill Act” che prevede una riduzione delle imposte tale da agevolare le piccole e medie imprese del settore terziario ma che comporta innalzamento del debito e una riduzione della spesa sociale a scapito della classe medie e delle classi più deboli. Con questo atto aumenta la disuguaglianza tra le più alte degli Stati occidentali perché il 10 per cento della classe elevata vede aumentare la sua ricchezza del 2 per cento mentre il 10 per cento della classe più disagiata vede aumentare la sua povertà del 4 per cento. L’altra azione di Trump funzionale a raggiungere un equilibrio, anche con i dazi, è quella di disincentivare la delocalizzazione selvaggia che dagli anni Novanta ha privato l’economia Usa delle attività manifatturiere che sono crollate a scapito della finanza e del settore dei servizi che hanno visto innalzare l’occupazione rispetto a quella manifatturiera passata dal 50 per cento al 10 per cento.

Anche questa finalità è condivisibile ma i mezzi diventano troppo deboli per realizzare questo obiettivo in tempi stretti per evitare la recessione e favorire il ritorno della manifatture per difficoltà strutturali. L’azione di delocalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia reale è iniziata a ridosso della caduta del Muro di Berlino avvenuta nel 1989 dando l’idea che il modello di sviluppo fondato sulla finanza fosse il mantra della crescita infinita. Infatti è proprio nel 1990 che comincia l’era della finanza che accomuna l’accademia, la politica e gli interessi dominanti a dettare una forma di monopolio culturale in tutti i sensi. In quell’anno l’Accademia di Svezia assegna il primo Premio Nobel per l’economia ad Harry Markowitz, per gli studi pionieristici della finanza che contribuirà a rendere verità incontrovertibile la razionalità dei mercati finanziari che sarà sancita dal Premio Nobel per l’economia a Robert Lucas nel 1995, per la sua tesi sulla finanza razionale con la tesi, incompiuta, che i mercati finanziari non sbagliano mai nell’allocazione della ricchezza. L’economia da scienza sociale diventa scienza esatta contro la sua natura ed il suo Dna, nonostante i precedenti ammonimenti di Friedrich von Hayek che, nel 1974, in occasione del Premio Nobel per l’economia, con la sua prolusione, La pretesa di sapere, metteva in guardia dall’uso esclusivo di strumenti matematici tipici delle scienze razionali a una scienza sociale come l’economia.

Dal 1991 la delocalizzazione selvaggia in 35 anni ha creato un mondo manifatturiero nell’estremo Oriente, in Cina che aveva al tempo un Pil pro-capite inferiore a quello del Ciad, la fabbrica del mondo. In tutto questo tempo si è andato strutturando un sistema manifatturiero a elevata specializzazione con costi significativamente più bassi di quelli degli Usa e riportare indietro quella struttura in tempi brevi sembra un’impresa impossibile non solo per la ricostruzione di strutture produttive dal nulla ma particolarmente per la mancanza di manodopera qualificata di fatto carente o addirittura inesistente. La struttura produttiva europea, specie quella italiana basata sulle piccole e medie imprese che occupano il 92 per cento della forza lavoro è stata meno preda della delocalizzazione selvaggia e ha saputo mantenersi più attaccata al territorio e a una cultura del welfare di fatto sconosciuta negli Usa la cui idea economica è quella del mercato. Le finalità sono da condividere ma i mezzi e i tempi per realizzarle sono da mettere in discussione. Introdurre ora una cultura del welfare che riporti la persona al centro degli interessi sembrerebbe perseguibile ma in modo opposto a quella proposta da Trump che dovrebbe non diminuire ma innalzare le tasse sui patrimoni più elevati e aumentare il sostegno alle classi medie e povere per evitare il sorgere di elevati conflitti sociali.

Lo stesso Larry Fink, ceo di BlackRock, ha proposto una redistribuzione dei redditi e della ricchezza globale per fare crescere le classi più deboli e generare nuovi consumi e nuovi investitori. Trump, nella sua azione a stop and go, che lascia una debole fiducia ai risparmiatori, deve fare i conti con la dimensione del debito pubblico e la sua dinamica di crescita. Il maggiore debito comporta il ricorso a nuove emissioni obbligazionarie dei Treasury Bond Usa che trovano però una minore accoglienza nei mercati e per questo la Fed che li ricompre si trova di fronte alla necessità di aumentare i tassi di interessi sulle obbligazioni stesse che contribuiscono a generare inflazione creando un sistema che si autoalimenta. La posizione dominante del dollaro come moneta globale viene messa in discussione dalla crescita dei Brics come antagonista che mira a dedollarizzare il sistema a favore di altre valute. Tutto questo porta a un indebolimento della valuta statunitense a favore di altre valute e sposta l’attenzione dei risparmiatori verso altri mercati obbligazionari che possono sembrare meno a rischio oggi come quelli italiani che vivono un momento di crescente domanda.

I Cds, Credit default swap, che sono strumenti assicurativi a fronte di investitori in mercato obbligazionari hanno visto aumentare a 53 punti quelli del mercato Usa sulla stessa linea di quelli italiani, i tedeschi sono a 18 punti, ma la contraddizione della strumentazione di misurazione finanziaria continua ad assegnare la tripla A agli Usa e la tripla B all’Italia seppure con un outlook positivo. Il rischio del sistema Usa è quello di perdere la fiducia degli investitori e soggetti importanti nel settore finanziario come Jamie Dimon di JPMorgan Chase e di Ray Dalio, gestore di uno dei più importanti hedge fund, cominciano ad allertare il risparmio cominciando a definire orizzonti temporali ristretti per il risanamento della finanza Usa così come stanno facendo i media americani come The Wall Street Journal e Bloomberg mentre i media italiani sembrano ignorare colpevolmente il problema. Trump ha di fronte una difficoltà enorme e sembra avere definito le giuste finalità ma i mezzi usati risentono ancora troppo della cultura che li ha portati a questa fase di decozione e come dice il vecchio adagio: “Presto e bene, non si conviene”. I mezzi vanno ripensati rispetto ai fini se ricorrono allo stesso modello culturale che ha creato questa potenziale fase di dissesto. Albert Einstein sottolineava il pericoloso errore di rimanere fermi di fronte ai cambiamenti proponendo le stesse ricette che hanno creato il problema.

(*) Professore emerito dell’Università Bocconi di Milano

Aggiornato il 11 giugno 2025 alle ore 11:08