Iran, la generazione perduta: “z” come zero

Come mai i turbanti dei mullah iraniani non si sciolgono mai? Fuori da ogni ipocrisia, diciamo pure che le rivoluzioni non si fanno più con i garofani nei cannoni in Paesi iper-repressivi e totalitari, come l’Iran e il Venezuela, in cui la più potente delle polizie non ha né divise, né codici etici da rispettare. Nel caso iraniano, in particolare, occorrerebbe, come è accaduto con la recente presa di potere a Damasco da parte dei miliziani sunniti dell’Hts (Organizzazione per la liberazione del Levante), una testa di ponte di milizie sunnite ben addestrate e armate dall’Occidente, che ne insidiassero i confini, fino a far cadere il regime teocratico con l’aiuto di una sollevazione civile interna. Se ci fosse stata oggi la stessa Cia di ieri, che aiutò i mujahidin afgani a sbarazzarsi dell’esercito sovietico, si sarebbe potuta organizzare una fase progressiva di destabilizzazione del regime iraniano, proprio partendo dai territori sunniti irakeni confinanti. Ma, oggi, che l’America si isola dall’Europa e ha come obiettivo prioritario il contenimento della Cina, tutti gli scenari mediorientali, a esclusione del fronte israelo-palestinese, hanno perduto di interesse strategico, anche se rimane in piedi lo spettro della nuclearizzazione della regione, qualora l’Iran si doti di armi nucleari, spingendo così alla rincorsa i Paesi arabi confinanti, come il Regno saudita (con il quale, però, di recente l’Iran ha riannodato rapporti diplomatici, grazie alla mediazione della Cina), più esposti a questo tipo di minaccia.

Ma, senza una leva (armata) dall’esterno, sarà molto difficile pronosticare nel breve termine un abbandono del potere da parte degli ayatollah iraniani che, finora, sono riusciti a cadere in piedi malgrado la rivolta degli studenti di “donna, vita, libertà” e le recenti disfatte belliche (che, si spera, possano funzionare da deterrente) da parte di Israele, che ha distrutto la rete dei proxy del decantato Asse della Resistenza. Ora, viene da chiedersi se la generazionez” (i nati tra il 1997 e il 2012) dell’Iran sia da considerarsi di fatto azzerata nelle sue aspirazioni fondamentali di libertà e democrazia, a causa dell’impossibilità di sconfiggere pacificamente l’impressionante spinta del khomeinismo, per cui “L’Islam è politico o non è nulla”. Del resto, la vera sfida viene proprio dal mondo studentesco fondamentalista sciita, presente in massa nelle scuole islamiche di Qom, che vantano ben 70mila iscritti provenienti da tutto l’Iran per studiare da mullah. E, verosimilmente, saranno proprio loro, una volta diplomati, a costituire la futura élite religiosa che, attraverso il proprio orientamento e le scelte sociali, guiderà l’Iran nei prossimi decenni, in perfetta continuità o discontinuità con il passato. E a svolgere le funzioni di Harvard per la formazione delle future élite è proprio Qom, una sorta di “Vaticanoiraniano, dove si fanno e si disfano le dottrine dell’Islam, che hanno implicazioni tanto dottrinarie quanto profondamente politiche sulle sorti del Paese.

Questo perché in Iran, dal 1978, qualsiasi forma assuma l’attualità il suo volto ha sempre una forte connotazione religiosa, anche laddove si trattino temi squisitamente tecnici come la svalutazione monetaria, o la posizione da assumere ai tavoli della trattativa con Washington. Ma, anche qui, occorre fare molta attenzione ai derrière la scéne: Qom è una grande metropoli piena di giovani che, dal canto loro, non hanno nessuna intenzione di marciare al passo. E poiché per contare occorre puntare in alto, si può stare certi dell’apparizione in futuro di una qualche Quinta colonna che dal turbante migri alla versione persiana, ben più laica e prosaica, del cappellino a falda larga, con su inciso lo slogan “Make Iran Great Again” (Miga). Per il momento, se gli Usa dovessero riaprire la loro ambasciata a Teheran troverebbero tutto quanto come lo hanno lasciato, dato che l’edificio diplomatico è stato a suo tempo riciclato come museo tematico, dal titolo “Il tempio dello spionaggio”. Per capire come sono cambiati i tempi, mentre nel 2015 Teheran si trovava a negoziare sull’arricchimento dell’uranio con ben 15 Nazioni differenti e con insanabili divisioni interne tra le sue élite, oggi invece appare unita come un sol uomo dietro l’anziana Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei che, dieci anni fa, giocava il ruolo dello scettico blu, mentre oggi è lui stesso, in prima persona, a incoraggiare i colloqui esclusivi e diretti con l’arcinemico americano, visto che il suo magniloquente Asse della Resistenza anti-sionista si è rivelato una tigre di carta. Anche perché il suo popolo è alla fame in quanto i suoi governanti, in un Paese ricco di petrolio, sottoposto a un rigido embargo, hanno deciso di dilapidare parecchie centinaia di miliardi per armare le milizie di Hezbollah, Hamas e Houthi.

Per di più, come la Guida suprema, hanno cambiato registro anche le sue guardie pretoriane, i famigerati Guardiani della Rivoluzione (i veri detentori/usurpatori delle ricchezze della Nazione!) che sperano di beneficiare al massimo di un accordo con gli Stati Uniti. E questo perché le sanzioni hanno mandato letteralmente a picco l’economia e la valuta iraniane, per cui il potere ha tutto da temere da una popolazione fortemente impoverita e pronta a scendere in piazza, costi quel che costi. I simboli in tal senso dicono tutto: fino a poco fa, per accedere all’Università di Teheran occorreva letteralmente calpestare una gigantesca bandiera americana a stelle e strisce, che però oggi è stata rimossa. Persino i clerici islamici non gridano più nei loro sermoni “morte all’America!”. E poiché pecunia non olet, appena iniziati i colloqui iraniano-americani il Rial, la moneta nazionale, è risalita del 25 per cento, seppur partendo da una base disastrosa. Per capire com’è cambiata la musica, Khamenei ha rivolto di recente la sua preghiera al fratello dell’Imam Hussein (terzo Imam martire dello sciismo nell’VIII secolo), Hassan, che per amor di pace capitolò dinnanzi al tiranno. Occorre dire che, in tal senso, Khamenei non aveva scelta dato che il suo potere è ben lontano da quello del suo alleato cinese Xi Jinping, che ha il pieno controllo dell’internet nazionale, mentre lui non ha alcuna presa sulle trasmissioni satellitari e sulle reti Vpn, che assicurano un’informazione parallela a quella di regime.

Del resto, anche quelli che tra gli irriducibili fondamentalisti antioccidentali predicavano l’autarchia, oggi si debbono arrendere ai continui black-out e a un’economia allo sfascio (attualmente pari appena a un terzo sia di quella turca, che saudita), aprendo nel settore energetico agli investimenti esteri e americani, in particolare. Alla lunga, come si vede, “the money matter”: conta solo il denaro (e il benessere economico dei propri cittadini!).

Aggiornato il 06 giugno 2025 alle ore 12:12