
Centotrenta anni dopo, vittima di uno dei più gravi errori giudiziari della storia
A novant’anni dalla morte (1935), e a 130 dalla sua degradazione pubblica, nel cortile della Scuola militare di Parigi (gennaio 1895), Alfred Dreyfus – il capitano ebreo dell’esercito francese vittima di uno dei più clamorosi errori giudiziari della storia – è “in predicato” per ricevere, a titolo postumo di riparazione, la promozione al grado di generale di brigata. In questi giorni, infatti, la Commissione Difesa dell’Assemblea nazionale francese ha approvato all’unanimità un’apposita proposta di legge, figurante all’ordine del giorno per la successiva discussione in aula proprio il 2 giugno. Depositata il 7 maggio da Gabriel Attal, capogruppo di Ensemble pour la République, la proposta – precisa il mensile Shalom, rivista della Comunità ebraica romana – afferma: “La nazione francese, che ama la giustizia e non dimentica, eleva, a titolo postumo, Alfred Dreyfus al grado di generale di brigata… Cinque anni di deportazione e umiliazione hanno irrimediabilmente frenato la sua carriera. È incontestabile che, senza questa ingiustizia, Alfred Dreyfus avrebbe raggiunto naturalmente i gradi più alti delle gerarchie militari”.
In una nota ufficiale, l’Ambasciata di Francia in Israele ha sottolineato: “La nazione francese è impegnata per la giustizia e non dimentica. Promuove Alfred Dreyfus al grado di generale per correggere un torto, onorare un soldato e affermare che l’antisemitismo, passato o presente, non ha posto nella Repubblica”. Alsaziano di Mulhohuse, di famiglia ebraica benestante, diplomatosi all’École Polytechnique, tra le accademie militari più prestigiose di Francia, Dreyfus – che era nato nel 1859 – nel 1892 diviene capitano dello Stato maggiore, unico ufficiale ebreo in quell’organismo. Due anni dopo, a ottobre 1894, viene ingiustamente accusato di aver trasmesso documenti segreti, riguardanti specialmente i progressi dell’artiglieria francese, all’ambasciata tedesca: il processo inizia a dicembre successivo, in un’atmosfera fortemente antisemita e colpevolista. Le prove a carico del capitano sono discutibili e approssimative (specie una perizia grafologica su una scrittura a penna che ricorda solo parzialmente la sua calligrafia): mentre il 22 dicembre, entra in ballo anche una “pista italiana”, con un dossier segreto comprendente una lettera all’addetto militare tedesco a Parigi, scritta dal suo omologo italiano, Alessandro Panizzardi, e dove si legge la frase: “Quella canaglia di D.”. Decisamente troppo poco, per condannare l’ufficiale, quello stesso 22 dicembre, alla degradazione con infamia e alla deportazione perpetua ai lavori forzati nella famigerata colonia penale dell’Isola del diavolo, al largo della Guyana francese (dove il condannato giungerà ad aprile 1895). La vicenda di Dreyfus non è comprensibile senza considerare il clima rovente di sfiducia nella Terza Repubblica (su cui pesa l’umiliante sconfitta nella guerra coi prussiani del 1870, con la perdita dell’Alsazia-Lorena) e l’incipiente psicosi antisemita – e, più in generale, ipernazionalista e anticosmopolita – europea, non solo francese, di fine Ottocento. Ma ancora nel 1995, un secolo dopo la prima sentenza contro il capitano, il Ministero della Difesa di Parigi avrebbe negato, a un periodico di storia contemporanea, l’accesso a vari documenti sul tema (notizia diffusa, sempre nel 1995, dal mensile di area socialista riformista Ragionamenti Storia, diretto da Giuseppe Averardi).
La verità su Dreyfus cominciò ad emergere nel 1896, grazie alle altre indagini del colonnello Georges Picquart, che scoprì come il vero colpevole fosse un altro ufficiale, Ferdinand Walsin Esterhazy, effettivamente spia dei tedeschi. Ma il ruolo decisivo, com’è noto, fu dello scrittore verista Émile Zola: che nel 1898 pubblicava, sul quotidiano L’Aurore (di proprietà del politico liberale radicale Georges Clemenceau, passato da antidreyfusardo a dreyfusardo), lo storico editoriale J’accuse, dando risonanza internazionale al caso. Solo nel 1906 la Corte di Cassazione annullò la condanna, riconoscendo l’innocenza di Dreyfus e reintegrandolo nelle Forze armate, ma senza revisione penale in appello. Reinserito nell’esercito col grado di maggiore, l’ufficiale combatté onorevolmente nella Grande guerra, raggiungendo il grado di tenente colonnello della riserva e ricevendo Legion d’onore, Croix de guerre e altre onorificenze: ma le sofferenze subite e la ferita inferta alla sua carriera non furono mai pienamente sanate. La moglie di Dreyfus, Lucie, morì il 14 dicembre 1945, a Parigi, dieci anni dopo il marito (che, comunque non aveva mai ricevuto la piena assoluzione penale in un processo): dopo aver passato a Tolosa, sotto falso nome, gli anni dell’occupazione nazista. Tra gli otto nipoti dell’ufficiale, infine, Madeleine Lévy, la sua preferita, combatté nella Resistenza francese, e, arrestata e torturata, sarebbe poi morta ad Auschwitz.
Aggiornato il 03 giugno 2025 alle ore 11:30