L’Islam è incompatibile con la democrazia

Nello studio degli eventi storici, si tende ad applicare un’analisi del “che cosa sarebbe successo se...”. Si tratta di ponderare “cosa sarebbe successo se” fosse intervenuta qualche altra influenza e se questa avrebbe potuto portare a un esito più favorevole.

Ad esempio, che cosa sarebbe successo se il colonnello George Custer avesse atteso i rinforzi già in arrivo prima di lanciarsi nella battaglia di Little Big Horn? O se il capitano del Titanic avesse deciso di urtare contro l’iceberg direttamente di prua, anziché preferire virare a dritta? O se durante la Prima guerra mondiale un soldato tedesco di nome Adolf Hitler fosse stato ucciso sul campo di battaglia invece di essere semplicemente ferito?

In quest’ottica, che cosa sarebbe successo se due personaggi influenti, vissuti in epoche storiche diverse, fossero vissuti nello stesso periodo? Si sarebbero influenzati a vicenda in qualche modo?

Prendiamo, ad esempio, il presidente Thomas Jefferson (1743-1826), nato nella Colonia della Virginia, e il giornalista e poeta inglese Rudyard Kipling (1865-1936), che ebbe i suoi natali nell’India britannica. Cosa sarebbe successo se entrambi avessero potuto condividere le proprie idee su un argomento di interesse comune: l’Islam?

È noto che Jefferson sia stato uno dei presidenti più esperti nella storia degli Stati Uniti in materia di Islam. Incuriosito da questa religione, il giovane studente di giurisprudenza Jefferson acquistò nel 1765 una traduzione del Corano del 1734, che oggi fa parte della collezione della Biblioteca del Congresso.

Durante il suo soggiorno a Londra nel 1786, Jefferson ricevette una lezioncina da parte dell’ambasciatore musulmano di Tripoli, quando chiese a quest’ultimo perché i pirati barbareschi attaccassero senza motivo le navi mercantili statunitensi. L’ambasciatore non esitò a dichiarare con audacia che, in quanto musulmani, era loro diritto e dovere fare guerra ai non musulmani e ridurli in schiavitù come prigionieri. Inoltre, era loro convinzione che a qualsiasi musulmano ucciso in battaglia fosse garantito un posto in Paradiso.

Il diplomatico motivò altresì il diritto dei musulmani di vendere i marinai catturati per ottenere il riscatto, spiegandogli che, per evitare ulteriori attacchi, gli Stati Uniti avrebbero dovuto pagare un tributo. Jefferson scrisse al presidente della Corte Suprema John Jay dicendo che la giustificazione musulmana degli attacchi sferrati contro gli Stati Uniti “si  fondava sulle leggi del loro Profeta [Maometto], che era scritto nel loro Corano che tutte le nazioni che non dovevano diventare musulmane erano peccatrici, che era diritto e dovere dei Paesi musulmani fare guerra a quelli non musulmani…”.

Gli Stati Uniti avrebbero combattuto due guerre contro i pirati: la Prima guerra barbaresca dal 1801 al 1805 e la Seconda dal 1815 al 1816. Fortunatamente, quando Jefferson ricopriva la carica di Segretario di Stato sotto il presidente George Washington, fu ordinata la costruzione delle prime sei navi della Marina statunitense, in previsione di affrontare la futura belligeranza dei pirati musulmani. La Prima guerra si concluse con il pagamento di un riscatto e di un tributo da parte degli Stati Uniti, e la Seconda con una decisiva sconfitta dei pirati e nessun ulteriore pagamento di tributi.

Jefferson imparò una lezione dalla sua esperienza diretta con l’ambasciatore musulmano che gli rimase impressa per il resto della vita. Egli considerava l’Islam incompatibile con la democrazia per due ovvie ragioni.

In primo luogo, perché l’Islam si basava sul presupposto di essere superiore a tutte le altre religioni, conferendo ai suoi seguaci il diritto di commettere violenza per costringere altri credenti alla conversione o alla sottomissione.

In secondo luogo, perché, nel governare la nazione, la Costituzione americana non unisce Chiesa e Stato. Tuttavia, per quanto riguarda l’Islam, non esiste tale separazione, ovvero sia Chiesa che Stato sono un tutt’uno, rendendo così la religione incompatibile con una democrazia costituzionale.

Sessantasei anni dopo la morte di Jefferson, Kipling scrisse una poesia che, pur non essendo specificamente rivolta all’Islam, sottolinea l’intrinseca incompatibilità culturale che l’Islam porta con sé nel tentativo di adattarsi alle democrazie occidentali. L’Islam diventa il vero e proprio piolo quadrato in cerca del buco rotondo che non troverà mai.

(*) Tratto dall' American Thinker

(**) Traduzione a cura di Angelita La Spada

Aggiornato il 05 maggio 2025 alle ore 14:49