Cinesia: il morbo di Trump

Dopo il Covid-19, l’attuale pandemia trumpiana potrebbe prendere il nome di Cinesia, o movimento frenetico controllato. Ora, visto quante gobbe nei due sensi opposti sta generando il fenomeno sismico di Donald Trump, occorrerebbe fermarsi a riflettere se si sia in presenza di una rivoluzione globale antiglobalizzazione, o soltanto di buche mancate da parte di un maldestro golfista, per cui le palle vanno a colpire teste amiche senza fare punti. Insomma, come si osservano le cose dalla cittadella (commerciale) imperiale fortificata di Pechino? Stando al Financial Times (Ft), le gole profonde cinesi del più grande quotidiano della City tendono a equiparare il caos della rivoluzione trumpiana in atto a quello generato all’epoca dalla Rivoluzione Culturale maoista, in cui venne dichiarata guerra alle élite burocratiche e culturali del Partito Comunista Cinese (Pcc: in quel periodo finì in carcere anche il padre di Xi Jinping!). Ovvio, quindi, che gli attuali vertici politico-istituzionali della Cina non amino affatto né l’una, né l’altra delle due rivoluzioni. Anche perché molti di loro, emigrando negli Usa negli anni 80 e 90 per frequentare le migliori università americane, hanno conservato un’immagine dell’Occidente di cui vorrebbero che la Cina moderna traesse ispirazione, per quanto riguarda lo Stato di Diritto, le libertà personali e la scienza moderna. Di conseguenza, oltre a colpire gli affari, proprio l’abbandono di tali principi da parte dell’America di Trump genera sconcerto e amarezza nella leadership cinese filoccidentale.

Anche se questa discontinuità con il passato da parte degli Usa presenta indiscussi vantaggi per il suo avversario planetario cinese, in quanto l’inaffidabilità dell’alleato americano nella regione strategica del Pacifico (Vietnam, Filippine, Giappone), d’interesse vitale per la Cina, consente un cambio insperato di alleanze a suo favore. Soft power giallo, quindi, contro il rosso hard repubblicano degli Usa, con quest’ultima che cerca di distruggere a colpi di maglio la creatura amata e prediletta della Globalizzazione, di cui ha enormemente beneficiato la stessa Cina da 30 anni a questa parte! E, a questo punto, l’Europa, non più a carico della difesa americana, è costretta a rivedere le sue alleanze strategiche, visto che proprio la seconda (quasi prima) potenza mondiale economica potrebbe rappresentare la soluzione nel medio periodo, sia per mettere fine alla guerra in Ucraina con una pace appena tollerabile, sia come interlocutore commerciale mondiale alternativo al mercato Usa. Del resto, proprio la scelta ideologica (e, alla luce dei fatti, demagogica) fatta da Bruxelles per un Green Deal a tutti i costi, ha creato di fatto un’enorme dipendenza dell’Europa dalle batterie al litio e dalle terre rare cinesi. Pechino, da parte sua, ha da tempo acquisito la relativa tecnologia d’avanguardia e sottoscritto accordi contrattuali per la concessione dei giacimenti presso i Paesi terzi ricchi di materie prime, divenendo così il monopolista incontrastato delle tecnologie green.

Del resto, che Xi non rischi di fare la fine della rana bollita lo suggerisce l’imprevisto successo nel campo strategico dell’Ai (Intelligenza artificiale) di DeepSeek, anche se i fattori della disoccupazione giovanile crescente e del crollo demografico cinesi potrebbero incidere negativamente sulla crescita economica a fine decennio. Nel primo caso, si tratta di un problema di domanda sul versante del lavoro, in quanto non mancano i lavoratori ma gli impieghi ben retribuiti, a causa del surplus degli occupati in agricoltura. Come già analizzato precedentemente, i consumi interni cinesi non decollano, a causa della mancata adozione di radicali riforme strutturali e sistemiche, come quelle relative alla proprietà agraria, al regime bancario per l’erogazione di prestiti a imprese e famiglie (attualmente, il risparmio privato cinese è pari al 40 per cento del Pil!), alla libera circolazione delle persone, e così via, in modo da consentire a quasi un miliardo di individui in età da lavoro di essere più produttivi e di guadagnare di più, espandendo così i propri consumi individuali. Dall’inizio di questo secolo, il profondo divario tra domanda interna e investimenti è stato colmato da un enorme surplus commerciale, mentre lo stesso scompenso che permaneva dopo il 2008 è stato equilibrato da una crescita spettacolare degli investimenti nell’edilizia e nelle infrastrutture.

Ma, mentre il settore delle costruzioni è entrato in una crisi profonda, il secondo, quello della manifattura, è cresciuto a dismisura creando un ulteriore eccesso di produttività che, a sua volta, ha stimolato una reazione protezionistica verso l’inevitabile aumento delle esportazioni cinesi che, se non potranno più andare verso gli Usa, si dirigeranno in direzione dell’Europa, costringendola a reagire con l’aumento dei dazi sulle merci asiatiche. Ma, perché gli europei possano avviare corretti scambi commerciali con la Cina, Pechino deve preliminarmente reindirizzare, come si è detto, la sua economia verso la domanda interna per evitare pratiche di dumping, inevitabili per collocare all’estero il suo surplus produttivo. In cambio di minori tariffe, la Cina potrebbe accettare di trasferire tecnologia avanzata e investire nello sviluppo industriale dell’Europa che, a sua volta, deve poter centralizzare le sue regole di investimento in modo da poter sottoscrivere accordi del tipo “Fdi” (Foreign direct investment) e patti commerciali di ampio respiro. Prima, però, Bruxelles deve procedere a una deregulation da favola che azzeri, come ha fatto notare Draghi, i dazi interni che valgono in media il 40 per cento!

Aggiornato il 14 aprile 2025 alle ore 10:39