
Ma quante belle capriole che fanno gli economisti “intrumpati”, cioè ostacolati, ma anche “intruppati”, nel senso di fare corpo unico nel condividere analisi catastrofiche che si rivelano alla fine del tutto infondate. Vedi in ultimo gli spettacolari recuperi di Wall Street, dopo l’annuncio di Donald Trump di congelare per un trimestre i dazi imposti unilateralmente al resto del mondo. Tutti lì, come ipnotizzati, a seguire sconcertati le gobbe in su e in giù prodotte dal terremoto Donald Trump, attuale inquilino della Casa Bianca. Nessuno, in pratica, che si accorga di fare in realtà il suo gioco di outsider, dato che la maggior parte degli osservatori non possiede la pazienza confuciana (ma nemmeno Xi Jinping ne fa sfoggio), a quanto pare, di aspettare il secondo, se non il terzo tempo per vedere che effetto fanno a regime le sue mosse a sorpresa. Insomma, Trump sarà pure uno di quei golfisti sbruffoni che le sparano grosse sulle loro fantasticate performance, e non sanno mai perdere sportivamente, ma il famoso Leviatano “acefalo”, costituito dal grande capitale finanziario di Wall Street e dalle major del digitale, che guadagnano ogni anno come il Pil di Stati di media grandezza, deve stare ben attento a credere che siano il denaro e la Big Tech ad averla vinta sulla politica. Per esempio: chi ha vinto e chi ha perso tra i grandi investitori in questa folle altalena di Wall Street? E, forse, non era una manovra abortita del Leviatano questo crollo simultaneo delle Borse mondiali, per costringere Re Donald alla resa? E, invece no: come in Cina, anche in Occidente (vedi Usa e Germania) la politica vince il mercato, nella morra planetaria del potere!
La Wall Street dei ricchi non ha fermato Donald Trump, come si è visto, e il popolo che lo ha votato non teme evidentemente la recessione, perché sa che in questo caso il suo presidente, come accadde per la pandemia da Covid-19, è pronto a sussidiare le famiglie più povere, così come Xi Jinping, grazie agli aiuti di Stato, tiene in piedi il suo decotto e fallimentare mercato immobiliare. Quindi, se il Leviatano (che rappresenta la “Struttura” dei poteri forti) non teme un “29” nemmeno la politica si fa spaventare da una simile prospettiva, essendo capace di rilanciare in ogni momento la formula magica di Mario Draghi, governatore all’epoca della Bce, del Whatever it takes. A proposito: si parla di populismo da social, che vive di passioni ed è lontanissimo dalla politica, ma non si capisce che il forte regresso del sentimento democratico nel mondo è proprio social-indotto dalla richiesta generalizzata dell’uomo forte, che faccia la grande politica per mettere la mordacchia al Leviatano e ai suoi accoliti pro-globalizzazione e pro-immigrazione senza limiti.
Tornando alla sinusoide dei dazi, se si guardasse attentamente al curriculum di spietato mercante e mediatore immobiliare di Trump, che ha alle spalle innumerevoli tavoli di trattativa con personaggi veramente “tosti”, come direbbe lui stesso, allora si capirebbe meglio la sua volontaria discontinuità, e si darebbe tempo agli assestamenti post-shock (seguiti da altri ribaltamenti di segno opposto) di manifestarsi. Pertanto, che cosa si ricava dal balletto “Dazi sì; Dazi no? Innanzitutto che l’America di Maga è la più forte di tutte le altre sue concorrenti (in pratica, è già Great), dato che ha costretto tutti i daziati a un’affannosa rincorsa (per questo vedono il didietro del presidente Usa) per cercare di alleggerire il proprio fardello di gabelle, con proposte di scambi alla pari e, soprattutto, bilaterali! E questo, in fondo, è proprio il successo atteso dalla conduzione della politica estera trumpiana, che privilegia l’abbandono integrale del multilateralismo e degli istituti internazionali di mediazione, affinché sia il più forte (sempre lui, Trump) a trarre notevole vantaggio dal suo maggiore peso contrattuale. Pochi, in fondo, hanno focalizzato correttamente le ragioni geoeconomiche dell’ultimo strano ballo dei dazi alla corte di The Donald, che è servito, in pratica, a isolare il vero bersaglio da colpire, ovvero la Cina, il grande nemico dell’Occidente. Perché è lì il nodo scoperto delle decine di milioni di elettori hillbilly che hanno votato il duo Donald Trump-J.D. Vance: tutti costoro vogliono il decoupling con la Cina, alla quale è stato consentito di giocare fuori delle regole da più di venticinque anni.
L’obiettivo, quindi, è di riportare in patria le manifatture americane delocalizzate nel Celeste Impero, in modo da ricostituire gli impieghi perduti per decine di milioni di unità. Impresa non facile e non breve perché, al contrario dei capitali che viaggiano sul filo (oggi, sulla Rete), le fabbriche e gli impianti sono una cosa concreta e non possono essere facilmente smantellati e ricostruiti come tante scatoline da meccano. Ma guai a credersi furbi dal versante cinese (ricordando sempre l’iper orgoglio dell’etnia dominante Han, che non accetterebbe mai di sentirsi inferiore a qualcun altro!) credendo di poter vincere una guerra di dazi con l’America! Ora, bisogna aver chiara un’altra questione: se l’Ue cerca disperatamente nel breve termine un mercato alternativo agli Usa per piazzare il suo export, non deve guardare alla Cina che, per assorbire quei beni e servizi non più consumati in America, dovrebbe espandere molto rapidamente i suoi consumi interni. I quali, invece, restano molto rigidi ed evolvono assai lentamente, date le peculiari caratteristiche economiche della Cina che è tutto, fuorché un mercato aperto.
Le famiglie cinesi, infatti, presentano un’alta propensione al risparmio, e una popolazione che invecchia consuma obiettivamente meno, e non ha bisogno di case nuove che trainano i consumi di base. Tra l’altro, nella Cina comunista di Xi Jinping l’assenza di strumenti di risparmio si somma alla statalizzazione delle terre fertili, tutte di proprietà delle collettività locali, che le danno in taluni casi in affitto. La mobilità interna cinese, poi, è rigidamente controllata (addirittura, occorre una sorta di passaporto interno per spostarsi dalle province contadine verso le grandi città), per cui non c’è grande circolazione interna delle persone alla ricerca di un lavoro per migliorare il proprio reddito. Idem, per quanto riguarda la mobilità negli studi, che in Cina sono molto selettivi, competitivi e centralizzati, disincentivando la tendenza a cercare lavoro dopo la licenza liceale. Quindi, per fare gli interessi dell’Europa in materia di parità negli scambi commerciali e di apertura effettiva del proprio mercato interno, la Cina avrebbe bisogno di profonde riforme strutturali e sistemiche, come quelle relative alla proprietà agraria, al regime bancario per l’erogazione di prestiti a imprese e famiglie, alla libera circolazione delle persone, e così via, in modo da consentire a quasi un miliardo di individui in età da lavoro di essere più produttivi e di guadagnare di più, espandendo così i propri consumi individuali. Insomma: “Te la do io la Cina!”.
Aggiornato il 11 aprile 2025 alle ore 10:21