Il demonio nella democrazia (a proposito di Eurss)

Il caso di Marine Le Pen, che poi è il caso lin Georgescu o il caso di Ursula von der Leyen (“Se l’Italia andrà in una direzione difficile, abbiamo gli strumenti, come nel caso di Polonia e Ungheria”) o il caso Thierry Breton (“Applichiamo le nostre leggi in Europa quando c’è il rischio che vengano aggirate. Lo abbiamo fatto in Romania, e se necessario lo dovremo fare anche in Germania”) o anche il caso nther Oettinger (“I mercati insegneranno gli italiani a votare”), che poi è anche il caso Mario Draghi (“il pilota automatico per le riforme”), è la conferma di quanto scrisse il filosofo polacco Ryszard Legutko nel saggio pubblicato nel 2016 e, a differenza di Eurss. Unione europea delle Repubbliche socialiste sovietiche, non ancora tradotto in italiano, dal titolo quanto mai eloquente: The demon in democracy. Totalitarian temptations in free societies.

Tentazioni totalitarie a cui dopo 10 anni si è ampiamente ceduto, e forse è pure meglio così: le maschere sono cadute, si gioca a carte scoperte. Tutto è lecito, specialmente nel nome della (post) libertà, del progresso, delle tecnoscienze, del capitalismo della sorveglianza e della (post) democrazia standardizzata. Ma perché Legutko, che è stato anche parlamentare europeo, parlava di tentazioni totalitarie della democrazia, in base a quali vissuti personali poteva alimentare una preoccupazione simile? Il vissuto è la Polonia, durante e dopo il regime comunista. Ed è soprattuto quel “dopo” che ha allarmato l’autore, osservando quanto fossero molto più a loro agio gli ex comunisti, rispetto ai dissidenti e ai viscerali anticomunisti, nell’adattarsi ai regimi liberal democratici dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia. Le vecchie nomenclature sono state addirittura “dominanti” nel passaggio dal vecchio al nuovo sistema. Abili a riaccreditarsi come social o liberal democratici, i rottami dell’utopia sovietica sono stati centrali nella transizione verso l’economia di mercato.

E nella stessa Europa occidente, rileva l’autore, le istituzioni pubbliche e private, “compresa l’Unione europea”, hanno da subito considerato gli ex comunisti “più congeniali degli ex dissidenti come partner in politica e negli affari”. Lo “scandalo” del libro di Legutko è la tesi che comunisti e democrazia liberale hanno molto di più in comune di quanto si possa pensare: entrambi derivano dalle stesse radici storiche nella prima modernità e accettano presupposti simili su storia, società, religione, politica, cultura e natura umana. L’autore ritiene che la liberal democrazia abbia avuto gli stessi obiettivi del comunisti, con il vantaggio di non aver disposto della brutalità del regime sovietico. Brutalità che, tuttavia, a 10 anni dal suo libro, sta invece lentamente ma inesorabilmente emergendo.

Perché se non è brutale eliminare i propri oppositori per via giudiziaria (perché probabilmente si teme che non potranno essere sconfitti con la sola forza delle proprie idee, e quindi con la politica), imporre a un popolo di votaresecondo mercato” o di “rassicurarlo” che comunque vada un’elezione ci penserà il “pilota automatico” o gli “strumenti” (leggi ricatto fondato su spread, debito pubblico, speculazioni finanziarie; e se tutto questo non dovesse funzionare, si fa sempre in tempo a recuperare il “grande classico” delle procure), cos’altro può esserlo? Legutko sostiene, dunque, che le “tentazioni totalitarie nelle società libere” nascano proprio da questa impressionante e molto ben riuscita mutazione antropologica che comincia con Iosif Stalin, continua con i pre e post sessantottini fino alle sentinelle dell’Ue tecnocratica, la cui sovranità appartiene rigorosamente ai mercati.

A conforto delle tesi del filosofo polacco, evidentemente non così bislacche, poco più di un anno fa, nel suo blog, Alberto Bagnai scriveva che l’Unione europea è “un’Unione Sovietica che ce l’ha fatta”. Chi può immaginarsi, si chiedeva, un onideBreznev venire a dirci che dal 2035 dobbiamo passare tutti all’auto elettrica o un Jurij Andropov imporci di sostituire gli arrosticini con la carne sintetica?”. E infatti “dove non sono arrivati i gerarchi russi, sono arrivati i tecnocrati europei”. E come ci sono riusciti? “Facendoci abbassare la guardia”, concludeva l’esponente leghista. Legutko, da par suo, è ovviamente consapevole delle distanze tra la democrazia liberale e il comunismo. A differenza del comunismo, sostiene, non ci sono “guardiani ufficiali” della dottrina nella dottrina liberale (anche se, dopo 10 anni, osservando con dolore e preoccupazione lo scadimento di un giornalismo che si è fatto sempre più garante dello status quo, per non dire propaganda aggressiva, possiamo affermare che anche l’ortodossia globalista, forse perché in evidente difficoltà, ha chiamato palesemente a raccolta i suoi “guardiani ufficiali”).

Eppure, nel profondo, sostiene l’autore, le due ideologie sono talmente simili da rendere assurdo opporsi all’una e abbracciare l’altra. In particolare, condividono tre caratteristiche fondamentali: minimalismo antropologico, visione progressista della storia e fede nell’idea di uguaglianza. In merito al terzo aspetto, in particolare, secondo Legutko, l’uguaglianza definisce l’identità moderna dell’occidente e la sua immagine del futuro; le viene dato “uno status di altissimo valore e reso un principio regolatore”. Gli esseri umani sono visti come primordialmente uguali e il compito della società è di renderli di nuovo uguali. L’impegno liberal democratico per l’uguaglianza si manifesta per la prima volta in quella davanti alla legge. Ma man mano che aumenta la democratizzazione della società e l'idea di uguaglianza universale mette radici, l’attenzione si sposta, prima sulla persistenza della disuguaglianza negli usi e costumi delle persone e poi sul modo in cui le persone pensano e concettualizzano il mondo.

Poiché le comunità tradizionali, le relazioni sociali, i costumi e le pratiche tendono a essere caratterizzati da disuguaglianza e gerarchia, devono essere sradicati e rifatti. Qui il linguaggio, che plasma i pensieri delle persone, assume una valenza fondamentale. È innegabile, infatti, che anche nei regimi liberali, come in quelli comunisti, osserva l’autore, emerga quella neolingua, capace di esprimere concetti “così carichi di valore che non consentono alcuna discussione”. La conseguenza finale di questi sforzi egualitari, sostiene Legutko, è che tutti gli aspetti della società sono politicizzati. La costante sollecitazione a “cambiare e riformare”, nelle università, nei media e ora anche dalle grandi aziende, e l’inevitabile fallimento del processo politico nel trasformare le nostre speranze sempre più grandi in realtà, viene presa come segnale della necessità di sforzi politici sempre maggiori. Le successive battaglie per la libertà, hanno finito per distruggere le particolarità nazionali e religiose sviluppate nel corso dei secoli, sostituendole con nuove categorie (femminista, ambientalista, queer) che mancano di qualsiasi storia organica o insieme di pratiche condivise.

Il risultato, conclude, non è il fiorire di molte culture diverse, ma piuttosto la profusione di identità politiche, che condividono tutte la fedeltà alla cultura e alla politica liberale democratica omogenea che le ha rese possibili. Ma la più evidente, perniciosa e inquietante analogia tra comunismo e democrazia liberale è la (in)tolleranza di facciata verso il cristianesimo, che è tale solo nella misura in cui esso si apre a una “modernizzazione” intesa come subordinazione alle idee e alle istituzioni dominanti. Il cristianesimo viene così privato di qualsiasi ruolo significativo nella società e, alla fine, cessa di funzionare come “alternativa praticabile alla noia dell’antropologia liberal democratica”.

Aggiornato il 07 aprile 2025 alle ore 09:36