Il laicismo è la soluzione al conflitto arabo-israeliano

Si parta da un assunto. Chiunque definisca Hamas “una forza di resistenza” è escluso da qualsiasi dibattito razionale sulla cosiddetta “questione palestinese”. Si tratta degli stessi, poi, che ogni giorno invocano la resistenza partigiana italiana nelle piazze, scordandosi che quella gente ci metteva fisicamente il proprio corpo e il proprio volto sul campo di guerra. Chi paragona Hamas ai partigiani fa un torto a degli eroi, paragonandoli a dei conigli che si nascondono dietro i civili. A chi ha dubbi in merito, si consiglia la lettura dell’ultimo documento politico di posizionamento di Hamas, che è considerato un aggiornamento moderato – sigh – dello statuto dell’orrore del 1988. Un problema di chi è vittima della propaganda è proprio questo, dell’idea che Hamas ha della “pace” in quella terra ce ne ha parlato Hamas stessa. Avendo chiarito questo, un confronto franco e privo di pregiudiziali è sì possibile, e anche doveroso.

Si parta da una data. Il 14 agosto 2005, quasi 20 anni fa, Israele annuncia il ritiro unilaterale – sì, unilaterale – da Gaza. A deciderlo è Ariel Sharon, non esattamente il leader più indulgente tra gli indulgenti. Sharon era ministro della Difesa ai tempi del massacro di Sabra e Shatila (1982), compiuto dalle falangi cristiane, alleate di Israele. Lo stato ebraico, pur essendo solo indirettamente responsabile dell’attacco, fece i conti con quel disastro. Una commissione interna accertò le responsabilità all’interno dell’amministrazione israeliana che portarono alle dimissioni di Sharon. È sempre stato così, Israele lava i panni sporchi in casa propria quando commette degli errori. Succederà anche nel prossimo futuro, per quanto riguarda le responsabilità del 7 ottobre. Forse non è ancora il momento. Ma, tornando a Sharon, il ritiro dalla striscia fu così categorico che Israele distrusse materialmente gli insediamenti dei suoi stessi coloni.

Israele era lì, a Gaza. Poteva disporne e annetterla in qualsiasi modo, non lo fece allora, non lo fa oggi, questo per chiarire un fatto: non è nell’interesse, quantomeno ideologico, israeliano annettere Gaza. Le vere rivendicazioni ebraiche – forse anche più legittime – sono in Cisgiordania. Lì guarda caso Israele agisce da sempre con molta più cautela e strategie diversissime, è un fatto evidente. C’è un altro fatto che in moltissimi trascurano: non è nella convenienza economica di Israele impegnare le proprie risorse, militari e non solo, nella Striscia di Gaza. Non è un caso che nel quinquennio successivo al ritiro da Gaza il Pil pro capite israeliano sia cresciuto notevolmente, aumentando di circa 10 mila dollari. Un trend positivo che è continuato, crisi del 2008 e pandemia a parte, fino ad oggi, quando Israele si attesta tra i primi 20 Paesi al mondo per questo indicatore. Ecco, questo legame economico è riscontrabile anche negli ultimi tempi ed è sicuramente legato anche ad altri fattori macroeconomici.

Tuttavia, fa specie leggere che proprio nel primo trimestre del 2024, all’indomani della risposta ai fatti del 7 ottobre, il Pil pro capite abbia subito una flessione del 3,1 per cento. Un massiccio impegno su questo fronte rende, dunque, gli israeliani più poveri, molto banalmente. Perché allora Israele sceglie in ogni caso di mettere in cima ad ogni agenda politica questi interventi piuttosto che impiegare le risorse in altro? Si torni al post-2005, per quelli che “non è iniziato tutto il 7 ottobre”. La striscia non è più “occupata”, una delle tante occasioni che i palestinesi avevano per organizzarsi politicamente ed esercitare il tanto agognato diritto all’autodeterminazione. Si tengono libere elezioni. Come è ben noto, vince Hamas, che nel 2007 caccia l’Anp da Gaza, relegandola al solo governo della Cisgiordania – Hamas vincerebbe anche lì probabilmente se si votasse oggi.

Le violenze non cessano, se possibile aumentano. Israele è costretta ad intervenire a Gaza un’altra serie di volte, fino al punto più critico toccato nell’ultimo biennio. Nel frattempo, mentre Israele cresceva, Gaza decresceva e si affamava vertiginosamente. Hamas si è rivelata un’ottima organizzazione militare, ma una pessima organizzazione politica, complice anche l’embargo israeliano ed egiziano. Grazie ad un semplice uso computazionale dell’Intelligenza artificiale e delle fonti dell’Idf, confermate da varie Ong, si stima che Hamas abbia sparato 40-45mila missili dal 2005 a marzo 2025, con una media di circa 5-6 al giorno. Questo considerando che Hamas non pubblica dati ufficiali e che circa il 20 per cento dei razzi ricadono a Gaza, complicando i conteggi. Tutto ciò per dire a coloro che chiedono che Israele smetta di occuparsi – e occupare – Gaza, dovrebbero prima chiedere che Gaza smetta di occuparsi di Israele. L’ascesa di Hamas è attribuibile ad una serie di cause differenti, tra cui vari errori oggettivi di Israele e anche all’impresentabilità e corruzione dell’Anp, che qualcuno vorrebbe resuscitare come redivivo interlocutore credibile.

C’è però un pattern costante che si riscontra dall’inizio del conflitto. Se lo scenario internazionale – non l’ondata ProPal dei campus americani, ma i posizionamenti dei singoli Stati – fatica a schierarsi unilateralmente da una parte o dall’altra, salvo notevoli eccezioni, le parti in causa (Israele e i vari leader del momento di Gaza e Cisgiordania) hanno continuato a radicalizzarsi sempre di più. Qui giace il punto. Una radicalizzazione che ha spinto l’ideologia e, soprattutto, la religione sempre più al centro del conflitto. Quante volte sostanziali accordi di tregua più o meno promettenti sono stati stroncati da questioni legate a Gerusalemme e/o alle zone di culto? Nessuno mette in dubbio che la libertà di esercitare il proprio credo religioso sia un diritto fondamentale e di primaria importanza, ma chi cerca di portarlo al centro del conflitto, da ambo le parti, nuoce gravemente alla causa. Vale enormemente sul fronte islamico, ma bisogna avere l’onestà intellettuale di ammettere che ciò vale anche per Israele. Potere Ebraico, il partito di Itamar Ben-Gvir, che è recentemente rientrato nel governo di Benjamin Netanyahu, è l’erede di un partito ultraradicale (Kach) che Israele aveva sciolto nel 1994. Le sue posizioni sono ambigue e alimentano dubbi sulla credibilità internazionale del governo, oltre a prestare il fianco ad un certo tipo di teorie.

Ben-Gvir e soci sono seguaci di un sionismo religioso revisionista, che nulla ha a che vedere con il sionismo laico promosso da Theodor Herzl alla fine dell’Ottocento. In Der Judenstaat, colui che viene definito come “il padre spirituale dello Stato ebraico” descrive un disegno sionista che ha poco a che vedere con la religione – Herzl non era praticante – e molto più con un pragmatismo volto a proteggere gli ebrei dall’ondata di antisemitismo globale. Questa confusione di sionismo religioso e laico è fortemente strumentalizzata dalla propaganda anti-israeliana. Anche da figure che conoscono queste dinamiche interne come Ilan Pappé e Noam Chomsky, che con malizia sanno che in Israele questo confine è labile e sottile. Nonostante ciò, resta di dirimente importanza che questo principio venga affermato anche oggi.

Sembrano discorsi sul piano meramente ideali con scarse attuazioni pratiche, ma è il punto cruciale che potrebbe causare la definitiva svolta della centennale vicenda. Che il sogno, coltivato anche da molti grandi israeliani, di due popoli due Stati sia definitivamente tramontato è un fatto che si dovrebbe iniziare a riconoscere. La problematicità intrinseca di premiare Hamas e accoliti della sua fervente attività recente con uno Stato è auto-evidente. Se esiste una via per un unico Stato è chiaro che quello Stato dovrebbe essere Israele, ma se e solo se riuscisse ad affermare la sua laicità, cosa che, ad oggi, non è garantita. Nel mentre, Israele potrebbe approfittare temporaneamente dei metodi poco ortodossi di Donald Trump per proporsi come unico credibile risolutore della questione. Si tratterebbe fondamentalmente di un’evoluzione, o di una fase di transizione, del piano ideato dallo storico Benny Morris che prevedeva un coinvolgimento della Giordania, in una federazione o confederazione con i territori palestinesi.

Affinché questo avvenga, gli ostacoli attuali restano. Gli ostaggi israeliani devono essere riportati a casa e non ha senso accontentarsi di mezzi accordi che mai hanno portato da nessuna parte. Viene da chiedersi se il vero errore sia stato accettare la tregua in prima battuta e non interromperla adesso. In ogni caso, la soluzione postuma, che sia un unico Stato in cui Israele riesce a garantire la laicità o una federazione palestinese-giordana, purtroppo non può essere attuata con due milioni di palestinesi in condizioni precarie nella Striscia. Ammettere che la Giordania è un interlocutore da considerare parte in causa, visto che il 50-70 per cento dei suoi abitanti è palestinese, è una necessità. Il motivo è proprio quello di cui sopra: la sua maggiore laicità. La Giordania non è storicamente la massima rappresentazione del cavouriano libera Chiesa in libero Stato. Eppure, è su posizioni più morbide in termini di integralismo religioso, garantisce costituzionalmente la libertà di culto con dei limiti, ha al suo interno una corposa minoranza cristiana a cui riserva delle quote nel Parlamento. Si assuma definitivamente un ruolo in questo processo, a patto che Israele faccia lo stesso passo e ritorni alle sue vere origini fondanti.

Aggiornato il 26 marzo 2025 alle ore 11:45