
La cronaca internazionale degli ultimi giorni è stata dominata dall’incontro, virato in scontro, del presidente Volodymyr Zelensky con Donald Trump, alla Casa Bianca. A leggere o ascoltare le reazioni dei vari commentatori, si sospetta che, la maggior parte di essi, abbia assistito solo alla burrascosa parte finale del meeting. Nei primi 30 minuti del video, Trump, seppur molto cordiale, è stato altrettanto schietto, nel ribadire, a più riprese, che la sua amministrazione non avrà altro ruolo nel conflitto che quello, equidistante, di “deal maker”, ossia di mediatore per la cessazione delle ostilità e, in prospettiva, di partner nello sfruttamento delle risorse minerarie di Kiev. La presenza “civile” americana sarebbe – ha argomentato Trump – una sufficiente garanzia di contenimento dell’espansionismo russo. Zelensky, pregiudizialmente contrario a concessioni e cessazione delle ostilità senza garanzie di sicurezza, ha dichiarato di non avere alcuna fiducia nella parola di Vladimir Putin né, implicitamente, nella capacità di Trump di farla rispettare. Ha, quindi, evocato incombenti minacce sugli Stati Uniti e i Paesi europei, ex satelliti dell’Unione Sovietica, ove la Russia non venga fermata militarmente, destando l’irritata reazione del presidente americano che ha accusato Zelensky di ingratitudine e irrealismo. Il solco tra i due è apparso, da lì, incolmabile.
Dallo scontro, Zelensky ha, forse, riscosso qualche simpatia tra il pubblico, ma sicuramente si è alienata quella del nuovo inquilino della Casa Bianca. E – come dimostrato dallo sparpagliato smarrimento dei partner europei dell’alleanza atlantica – con le simpatie (o i proclami), le guerre non si vincono, né si fermano. La pace “mercantile” proposta da Trump, sarà pure meno nobile degli inflessibili principi invocati dai leader politici del Vecchio Continente ma, parafrasando Frédéric Bastiat, dove passano le merci non passano gli eserciti. Non esiste la guerra giusta – nel senso che essa è, per definizione, amorale e torti o ragioni non stanno mai, interamente, da una parte sola – figurarsi se esiste una pace giusta. La nostra storia, nei due conflitti mondiali, dovrebbe ricordarcelo, a cominciare dalla “vittoria mutilata” della Grande guerra, fino alla punitiva pace della Seconda, che ci hanno privato, tra le altre cose, prima di Fiume e poi dell’Istria. E di tanto altro. Sulle ragioni della guerra in Ucraina si è sviluppata un’ampia propaganda su entrambi i fronti. C’è davvero chi, ancora, crede al revanscismo zarista di Putin e che, dopo l’Ucraina, come sostiene Zelensky, l’Impero aggredirà gli altri ex satelliti dell’Unione Sovietica? O sarà, invece, che pochi vedono di buon occhio un potente avversario che si avvicina, passo dopo passo, ai propri confini, come dimostrato dalla collera di Trump per l’invasione dei gruppi cinesi nel Canale di Panama?
La gaffe di Joe Biden sulla necessità di un “Change of Government” a Mosca, immediatamente ritrattata dallo State Department, è apparsa come la conferma, se ce ne fosse bisogno, che le intenzioni americane andavano ben oltre l’esportazione della democrazia a Kiev. Paradossalmente, sia i dem Barack Obama-Joe Biden che Donald Trump, sapevano e sanno, che la vera minaccia all’unipolarismo americano è la Cina. Il progressivo avanzamento di quella sottile linea strategica che separava l’Occidente, da quello che restava dell’impero sovietico, ha portato – eterogenesi dei fini – a coalizzare Mosca e Pechino. Trump ha compreso che deve spezzare questo asse, perché la Russia può diventare un importante strumento per contenere le ambizioni economiche e geopolitiche cinesi. In questo quadro, la popolazione ucraina è indubbiamente la, inconsapevole, vittima, lacerata da dieci anni di guerra civile, tra gruppi con contrapposto senso identitario e fedeltà, sulla quale si è innestata la proxy war tra le due superpotenze di riferimento. Se questo scontro lo hanno innescato le due superpotenze – concordano Trump e Putin – solo esse lo possono risolvere. Resta il sospetto che lo Showdown di Zelensky sia stata messo in scena per silurare il piano di pace di Trump. Magari su impulso di quel Deep State – o di quel “complesso industrial-militare” verso cui il presidente Dwight Eisenhower, a fine mandato, metteva in guardia i suoi fellow americans – che ancora non ha digerito il ritorno di Trump e lo spettro di una pace, rovinosa per i propri bilanci.
Aggiornato il 04 marzo 2025 alle ore 09:59