
Senza troppo clamore internazionale in Turchia proseguono le “purghe di Stato”. La somministrazione di queste caratteristiche “cure” è diretta verso quelli che il regime definisce terroristi che minacciano la sicurezza del Paese, ma che in realtà sono degli oppositori politici che manifestano il loro dissenso con sfumature democratiche; ma la democrazia in certi contesti non è auspicabile. Su questa linea la settimana scorsa, il ministro dell’Interno turco Ali Yerlikaya ha annunciato l’arresto di oltre 280 persone, tra politici dell’opposizione, giornalisti, docenti universitari e professionisti vari: sono accusate di terrorismo. Tramite la piazza digitale X, di Elon Musk (ormai quasi superata da Grok 3), Yerlikaya ha assicurato che questi arresti, ma sarebbe più preciso parlare di rastrellamenti, sono iniziati in una cinquantina di città, tra cui Istanbul, Ankara e Diyarbakir ubicata nel sud-est del Paese e a maggioranza curda. Ma hanno interessato cinquantuno province turche su ottantuno. Inoltre, sono seguiti mandati d’arresto per altre decine di persone, tra cui diverse personalità della sinistra e componenti del principale partito filo-curdo Dem, Partito democratico dei popoli, e del Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan, questo principale nemico dello Stato da quarant’anni; tutti con le medesime accuse di terrorismo.
Tra questi il presidente del partito dem Alya Akkus, prelevata dalle forze di sicurezza turche nella provincia orientale di Igdir, non lontano dal confine con l’Armenia, e trasportata in aereo a Istanbul. Tuttavia, l’Unione dei giornalisti turchi ha criticato questi arresti che hanno interessato molti loro colleghi, dichiarando inaccettabile che tali fermi siano stati effettuati con irruzioni nelle loro abitazioni invece di essere convocati alla stazione di polizia per essere interrogati, come indica la procedura formale; ma è noto che non esiste congruenza tra quanto viene stabilito per “legge” e quello che viene applicato, non solo in Turchia. Comunque, una operazione di “pulizia politica” del genere era tempo che non si verificava (arresti per ragioni politiche accadono sistematicamente in Turchia), infatti bisogna ricondurre la memoria alle elezioni presidenziali del 2013, vinte al secondo turno dal presidente Recep Tayyip Erdoğan; allora fu applicata la stessa modalità per eliminare il più possibile ogni forma di opposizione politica. Un’azione che riaccende le preoccupazioni circa una ulteriore deriva autoritaria del regime in un contesto sociale ed economico sempre più fatiscente. Ma quale è stata la causa vera scatenante di questa retata di oppositori del regime? Indubbiamente la questione curda, quindi politica, è una delle motivazioni, forse l’alibi del regime per applicare sistemi coercitivi sugli oppositori; una questione politica che vede i leader curdi vicini al loro capo Abdullah Öcalan, attualmente in prigione, portare avanti azioni dimostrative in ogni ambito, comprese le piazze, ma come è di consuetudine la causa principale è finanziaria. Infatti, il fattore provocante nasce il 21 febbraio quando la Borsa di Istanbul subisce una perdita del 2 per cento.
Di conseguenza, il procuratore generale della città quattro giorni dopo ha aperto un’indagine su alcuni soggetti sospettati di aver diffuso informazioni definite “intenzionalmente disorientanti” che hanno causato questo calo della Borsa. Di conseguenza, la procura di Istanbul ha avviato un’inchiesta per scovare gli elementi che hanno diffuso la disinformazione, azione intrapresa a pochi giorni dall’arresto di due amministratori della Tüsiad, Turkish Industry and Business Association, associazione turca dell’industria e delle imprese, accusati anch’essi di aver diffuso notizie false che hanno messo a rischio l’ordine pubblico. La Tüsiad, con le sue quattromilacinquecento aziende, rappresenta la metà del reddito nazionale privato della Turchia e gestisce tra l’ottanta e il novanta per cento del commercio estero, esclusa l’energia. I due leader della Tüsiad, Orhan Turan dal 2022 presidente della società e il banchiere e presidente del Consiglio consultivo Omer Aras, sono stati accusati e posti sotto sorveglianza giudiziaria, proprio dopo un loro discorso fatto all’Assemblea generale dell’associazione il 13 marzo. In questo contesto, dove era presente la spina dorsale dell’economia turca, hanno espresso critiche esplicite proprio sui continui arresti di deputati, dirigenti di partito, sindaci, e sulle pressioni esercitate sui giornalisti dissonanti con il regime, oltre avere sottolineato i persistenti problemi di violenza contro le donne, nonché l’impunità per gli autori di reati finanziari.
Insomma, critiche ad ampio raggio espresse in un contesto dove gli aspetti socio-economici del Paese sono stati setacciati da chi in realtà ne è attore determinante; e l’esordio del discorso di Turan è esplicito: “L’agenda è pesante, da dove iniziare”? Ai due dirigenti al momento è interdetto uscire dalla Turchia; ma il fattore chiaro è che Erdoğan adotta come consuetudine tali “purghe” perché è l’ultima arma rimastagli per illudersi di avere un controllo del Paese. “Purgare la massa” può essere una tattica efficace in tempi stretti, ma “purgare” capi di aziende, banchieri, giornalisti, avvocati, politici, sindaci, imprenditori e professionisti, è come iniettarsi sostanze letali che conducono al coma. Un coma politico quello di Erdoğan, che al di là dell’apparente sicurezza ostentata a livello internazionale, il fatto che si stia impegnando per riprendere i colloqui di pace con il Partito dei lavoratori del Kurdistan, Pkk, definito gruppo terroristico dalla Turchia e con il quale combatte da quaranta anni anche in ambiti internazionali, vedi Svezia e Finlandia, mostra un evidente segno di ricerca di un consenso politico interno decisamente articolato, quasi una sorta di compensazione al disgregamento socio-economico-politico del Paese.
Aggiornato il 03 marzo 2025 alle ore 10:19