L’Europa non tiene conto dell’India

Vero ago della bilancia delle relazioni internazionali. E gli Usa?

L’India è l'unico soggetto planetario in grado di bilanciare l’hypertrading cinese e il potere geopolitico che l’export conferisce a Pechino. La “guerra dei dazi” su cui lacrimano i media e i politici europei, gli stessi che in buona parte hanno prodotto il grande sonno industriale, sociale e per la obbligatoria sprovincializzazione dell’Unione europea, ha una realtà oggettiva, anche se risolverla coi dazi invece che col rilancio concorrenziale delle produzioni made in Usa di norma è un rimedio peggiore del male. In ogni caso è un fatto che gli Stati Uniti per decenni sono stati l’unica mammella per l’export di centinaia di Nazioni (e per la difesa semi-gratuita delle stesse). La Repubblica e Le Monde dovrebbero riconoscere il reale stato di cose da cui partire, invece di fomentare un nazionalismo europeo che rischia di essere un cinepanettone, data la concorrenza dell’ultradestra.

L’avvicinamento dell’India con gli Stati Uniti è cominciato con la presidenza di George W. Bush. Oggi l’agenda tra le due Nazioni riguarda la delocalizzazione da Cina e Taiwan di semiconduttori e industria hi-tech, e poi la difesa, dopo che la guerra putiniana contro l’Ucraina ha dimostrato un imbarazzante ritardo russo nel warfare e nella tecnologia bellica, a partire dai prodotti più concorrenziali: i sistemi antimissile S-400 e gli aerei Sukhoi Su-35S e Su-57. Il dialogo indo-americano potrebbe incagliarsi sui dazi statunitensi al 25 per cento su alluminio (la Cina è di gran lunga leader mondiale davanti a India e Russia) e l’acciaio. La lilliputizzazione della produzione di acciaio negli Stati Uniti è al centro dell’attenzione trumpiana, dai tempi della chiusura delle miniere in Pennsylvania fino alla attuale politica di ribilanciamento dell’import-export statunitense. La questione nacque già ai tempi in cui era Tokyo, e non Pechino o Nuova Delhi a esportare prodotti low cost negli Stati Uniti come in Europa. Si ricordi il protagonista di Gran Torino, film di Clint Eastwood, e il suo odio per le auto made in Japan, oppure auto giapponesi prodotte in Messico, dove i maggiori produttori mondiali di veicoli, inclusa Stellantis, hanno aperto fabbriche.

L’ILVA DI TARANTO E I “RATTI D’ACCIAIO” EUROPEI

Per capire la natura del dramma europeo dell’acciaio, basta ripercorre il caso dell’Ilva, la più grande acciaieria europea, estesa su 15 milioni di metri quadrati, in mano a partiti e Stato italiano e (perciò?) rimasta a un livello tecnologico arretrato, finché non fu appetita prima dalla famiglia Riva e poi da Arcelor Mittal. La multinazionale franco-indiana salpò l’ancora da Taranto nel 2019 quando, in polemica col Governo Conte bis, contestarono il “cambiamento delle regole” in corso di contratto, essendo stati coinvolti nella tragica questione dell’inquinamento prodotto. Si è così arrivati alla situazione attuale, che vede Ilva destinata a finire o nelle mani della Baku steel (Azerbajan) o in quelle dell’azienda indiana Jindal, con il passaggio ai forni elettrici, opzione obbligata che da anni avrebbe potuto risolvere quasi tutti i problemi di inquinamento. La gara tra i due soggetti esteri si basa in primo luogo sulla modernizzazione dei forni e su quanti esuberi i due concorrenti propongono. Gli azeri al momento sembrano essere in vantaggio.

L’Europa potrà difficilmente risalire la china. I dati parlano chiaro, e ricordiamo che la produzione di acciaio è oggi di nuovo strategica, essendo un indicatore importante per la salute economico-finanziaria di una nazione. L’acciaio è – insomma – un ottimo indicatore dello stato di salute delle diverse aree politico-geografiche del pianeta. Riporta l’Ispi: “Nel 1970 la produzione di acciaio in Cina era stata di 18 milioni di tonnellate, quella dell’Europa occidentale aveva superato di poco i 137,5 milioni di tonnellate, seguita da quella sovietica (117,9) e da quella americana (119)”. I dati riportati sono istruttivi per capire come e quanto l’economia europea si sia suicidata, soprattutto per l’ incapacità politica e predittiva.

Nel 2024 la Cina è stata il primo produttore mondiale con poco più di un miliardo di tonnellate prodotte (il 54 per cento della produzione globale). Rispetto al 2023 il totale di acciaio cinese è inalterato – a causa della crisi interna – ma in aumento per l’export. La tendenza per la Cina è comunque di un netto calo di produzione. Il secondo produttore mondiale nel 2024 è stata l’India, con 140,8 milioni di tonnellate prodotte, in grande crescita rispetto al 2023 (125,3). L’Unione europea terza realtà globale dell’acciaio, ma parliamo di una somma di Nazioni – ha prodotto 126,3 milioni di tonnellate, in calo netto rispetto al 2023 (136,3). La Germania da sola ha prodotto tanto quanto la Turchia (35,4 milioni di tonnellate). Il Giappone (87 milioni) e la Corea del Sud da sole producono più di Ue-27. Il Giappone produce più degli Usa. Le anomalie del mercato globale dell’acciaio insomma sono notevoli e – per giunta – le previsioni sulla produzione dei big player sono in calo.

Comunque la si pensi su Trump, la questione del commercio internazionale posta in primo piano dal presidente tycoon è fondamentale, soprattutto se si pensa che l’uscita dalla crisi, lunga e silente, iniziata attorno al 2000, è legata a una pacificazione relativa ma urgente. Su questo punto occorrerà dire al Papa, ai neo-marxisti e ai centralisti di destra, infine a quei giornalisti teledivisivi diventati paleosauri fossili, che la pace perfetta e permanente è prevedibile solo nel Paradiso, o nell’uscita dei singoli dalla catena del karma, eccetera. Però si deve pure trovare la quadra di un nuovo ordine mondiale che ci permetta di respirare e di tornare a creare culture civili e non il woke, musica vera e non sanremese, produzioni cinetelevisive che arricchiscano senza tragificarci le serate.

Il confronto sulla produzione di acciaio nell’Europa degli anni Settanta e di oggi è raccapricciante, è vero. Non vogliamo prendercela solo con l’Europa, sia chiaro, ma su quella fondata sul modello tedesco volgarizzato e più o meno bismarckiano non si può transigere. Gli unici modelli muniti di senso logico e di risultati sono quelli anglosassoni (non parliamo dei risultati economici delle dittature, quella è farina che va sempre in crusca). L’errore europeo è indicato nei Vangeli, quando Gesù pone una questione fondamentale: “Non si possono servire contemporaneamente due padroni”. Indicazione che vale anche in un campo prosaico: stare a metà del guado tra capitalismo e il neomarxismo è da minus sapientes, quando il welfare di piombo di oggi rispetto a quello degli anni d’oro chiede soluzioni e miglioramenti. Ci sono questioni fondamentali davanti alle quali non si può dormire. Stati Uniti d’Europa sì. Questa Ue, che di fronte agli schiaffi di J.D. Vance e Trump, e per giunta dopo l’esperienza catastrofica della comunione d’intenti con la Russia di Vladimir Putin, tira fuori un rapporto privilegiato con la dittatura cinese... No, grazie.

Aggiornato il 19 febbraio 2025 alle ore 09:52