
Proprio in questi giorni che la riapertura del dialogo tra le superpotenze, grazie a Donald Trump, sembra aver ravvivato le speranze di pace, si susseguono gli striduli schiamazzi di chi, questa inutile strage, invece, la vorrebbe far durare. Di fronte alla prospettiva di una, seppur solo ipotizzata, futura guerra di aggressione russa contro altri Paesi europei tanto vale, essi argomentano, continuare questo già ben avviato conflitto. I contrari alla soluzione negoziale della guerra − in primis, ovviamente, Volodymyr Zelensky, stretto tra quanti, pragmaticamente, accetterebbero qualche concessione e riconoscimento reciproco e, dall’altro lato, le irriducibili milizie ultranazionaliste, impegnate da un decennio a reprimere la rivolta degli oblast separatisti − evocano spericolati paralleli con l’appeasement verso Adolf Hitler, che non aveva fermato l’invasione germanica di mezza Europa. Paragonare la Russia al Terzo Reich e, il quadro attuale, alla situazione prebellica del secondo conflitto mondiale, ci sembra poco calzante e inutilmente provocatorio.
Oggi, in epoca di armamenti nucleari, Neville Chamberlain avrebbe ragione: è strano che i bellicosi oppositori di questo tentativo di fermare la carneficina credano che l’autocrate russo sia un pazzo criminale ma, allo stesso tempo, confidino nella sua riluttanza a non oltrepassare, neppure di fronte alla mala parata, la linea rossa dell’arma atomica. Di fatto, e fortunatamente, Trump sta procedendo nella sua strategia di perseguire, con fermezza, la cessazione delle ostilità. Ma non è solo sul fronte militare, che la nuova Presidenza Usa sta facendo fibrillare le cancellerie e il supergoverno di Bruxelles. L’offensiva internazionale di Trump, come promesso in campagna elettorale, si sta snodando su più fronti: dall’imposizione dei dazi ai Paesi con maggior surplus commerciale verso gli Stati Uniti, alla ragionevole pretesa che i partner dell’Alleanza atlantica si emancipino, investendo di più nella propria difesa, alla guerra contro quel mantra di inclusione e sostenibilità socio ambientale, codificato nell’acronimo Esg, delle Nazioni Unite, che assomiglia tanto a una nouvelle couture del credo marxista. Il nuovo corso dell’amministrazione americana sta facendo traballare quel castello di ideologia e dogmi su cui si sono rette, sinora, tante agende politiche in Occidente. Il crudo realismo di Trump sembra aver sgombrato la nebbia della ragione e svelato le troppe ipocrisie e falsità, spesso schermo per opachi interessi, diffuse dalla propaganda − ormai non più prerogativa degli autocrati − delle nostre, sempre meno liberali, democrazie. Così sicure della propria infallibilità morale, da non esitare a finanziare società di comunicazione, per fare attività di lobbying, della propria monolitica ortodossia, presso i propri stessi legislatori. O a evocare la “disponibilità di mezzi” per invalidare il risultato elettorale di un candidato non gradito. O, ancora, a promuovere e incardinare direttive per “moderare” la libertà di espressione e risparmiare al cittadino l’onere di decidere, da solo, che cosa capire o scegliere. Roba da Comintern, o come è più comunemente noto, da Terza Internazionale Comunista.
Il terremoto d’oltre oceano ha liberato le voci di dissenso che, fino ad oggi, erano nella sordina della censura mediatica e della minaccia della emarginazione. Ha, finalmente, scoperchiato quello che, tra molti di noi, si sussurrava come carbonari, ossia che questa Europa non è più la patria della libertà, né la guida morale del pianeta, né, ormai, una grande potenza economica (tantomeno geopolitica). La sguaiata retorica di molti media occidentali, contro Trump e il suo team, segna la cifra dello sgomento e della disperazione delle élite, abituate a impartire, dai forum internazionali, le istruzioni all’uso del pianeta e di chi vi abita. I leader dell’ircocervo popolar-socialista europeo ci hanno fatto credere di agire da protagonisti delle grandi questioni planetarie e, invece, non sono neanche comprimari, nei titoli di coda della triste sceneggiata degli ultimi anni. Là fuori, Superpotenze, Brics o Terzo Mondo, lo sanno già che contiamo meno del due di coppe con briscola a bastoni. Ciononostante, questa Europa, velleitaria e febbricitante, arrogante e decadente, né carne né pesce, pretende, parafrasando Mussolini, di “sedersi al tavolo delle trattative di pace”, grazie alle (non poche) decine di miliardi di euro spesi e agli innumerevoli, pomposi proclami. Sinora, da Washington non sono arrivati né inviti, né aperture.
La avventatezza e presunzione europea, nella vicenda del conflitto in Ucraina, ha svelato al mondo solo fragilità e inconsistenza geopolitica. L’Europa ha perso l’occasione di diventare mediatrice del processo di pace, prima ancora che il conflitto esplodesse, in tutta la sua crudezza, tre anni fa. Ora è tardi e, se sarà chiamata a partecipare, sarà solo alla fine dei giochi, per mettere mano al portafoglio e pagare il conto.
Aggiornato il 17 febbraio 2025 alle ore 16:33