Il presidente degli Stati Uniti: una monarchia elettiva?

Trump e qualche insegnamento per la democrazia italiana

L’elezione del presidente Donald Trump e la gragnuola di executive orders, “ordini esecutivi”, che ha scagliato sugli americani il giorno stesso dell’insediamento, hanno dato all’opinione pubblica l’impressione di una democrazia funzionante nella quale l’Esecutivo esercita il potere “a mano libera”. Trump non ha risparmiato un solo settore della politica e dell’amministrazione. Il suo consigliere della prima ora, poi caduto in disgrazia e finito in galera, Steve Bannon, ha giustamente parlato di uno “tsunami di provvedimenti”. Che la presidenza degli Stati Uniti fosse assimilabile ad una monarchia elettiva, ma non a vita come il Papa, è stato detto e ripetuto. Che tale l’avessero concepita i Padri costituenti, è controverso. Nell’evoluzione del sistema politico americano i presidenti hanno modellato la presidenza interpretando in vario modo le disposizioni costituzionali che la istituiscono, cioè le norme dell’articolo II sul potere esecutivo degli Stati Uniti, che è concentrato in una sola persona, il presidente.

La sezione I, numero I, stabilisce: “Il presidente degli Stati Uniti d’America sarà investito del potere esecutivo”. Come annota Edward Corwin nel suo classico commento alla Costituzione, “Quale è la portata della norma? Attribuisce i poteri al presidente o semplicemente lo legittima all’esercizio del potere? Se la funzione del disposto è la prima, allora le altre norme contenute nell’articolo II giustificano la loro esistenza unicamente al fine di mettere in evidenza o definire il potere esecutivo. Se si accetta la seconda tesi, allora il presidente ha soltanto quei poteri che specificatamente gli sono attribuiti dal disposto dell’articolo in esame. Il problema è stato dibattuto fin dall’adozione della Costituzione” (Edward S. Corwin, 1958, 113 e passim).

Dal 1789 la storia conosce dunque i presidenti che “sono rimasti attaccati, come la corteccia all’albero, alla lettera della Costituzione e delle leggi per quanto concernevano i loro poteri” ed i presidenti “steward of the people (servitori del popolo) perciò in dovere di provvedere a tutto quello di cui il paese potesse aver bisogno, eccetto l’esplicazione di quegli atti vietati dalla Costituzione e dalle leggi”. La tesi che tendeva a fare del ‘residente una specie di “provvidenza universale” (William H. Taft) ha convissuto con la tesi della “prerogativa” di derivazione lockiana secondo cui il presidente possiede “il potere di agire discrezionalmente per il benessere della collettività, senza che un certo comportamento sia prescritto dalle leggi, e a volte anche in violazione delle stesse leggi”.

Nonostante l’incerta ampiezza del potere esecutivo affidato al presidente, il numero 51 del Federalist ammonisce tutti i presidenti. “Noi non saremo governati da angeli e noi stessi non siamo angeli. Forse l’unico, squillante accordo della Costituzione è che nessuno è adatto a governare, non un re, non i giudici, non i preti, non sedicenti cercatori del pubblico interesse, né chiunque altro. Siamo tutti esseri umani, con umane passioni e fallimenti. Noi dobbiamo governare noi stessi e dobbiamo farlo in qualche modo a dispetto di queste passioni e fallimenti. Tutto ciò che qualsiasi costituzione può fare per noi è aiutarci ad essere al meglio di noi stessi. Questo è lo scopo della Costituzione degli Stati Uniti. E il suo relativo successo merita la nostra venerazione e la nostra stretta adesione. È tutto ciò che si frappone tra noi e la crudeltà e la follia di cui noi stessi siamo capaci” (Richard G. Stevens, 1984).

La quantità e la qualità degli “ordini esecutivi”, emanati immediatamente dopo il giuramento, hanno fatto dire a molti commentatori che, con la seconda presidenza, Trump abbia addirittura indossato la veste dell’imperatore, nel senso romano del nome. Però la similitudine vale unicamente come metafora. In primo luogo, perché soltanto in epoca imperiale la massima Princeps legibus solutus significò che l’imperatore fosse considerato al di sopra di tutte le leggi, essendone l’artefice. In secondo luogo, perché nonostante l’ampiezza e la potenza del potere esecutivo, di cui è investito, pure il Trump imperiale è una parte del tutto, uno dei tre poteri che nella Costituzione sono ben contemperati dai checks and balances, “controlli e bilanciamenti”. Metafora per metafora, con tutto il potere presidenziale Trump non potrà mai nominare senatore il suo caddie.

Alle lacrimose prefiche della democrazia agonizzante per, così lamentano, inefficienza, lentezza, macchinosità; ai muscolosi campioni del potere indiviso; ai rumorosi insofferenti dei limiti; agli avventurosi estimatori della democrazia illiberale, senza contrappesi, gli “ordini esecutivi” mitragliati alla cieca da Trump hanno fatto intravedere un regime nuovo, non più “misto” ma monocratico, che va per le spicce, illudendoli che possa mettere a posto le cose, presto e bene. Tutte queste categorie di cittadini, all’apparenza pensosi del “bene comune”, mostrano di amare l’azione purchessia piuttosto che l’azione meditata e di preferire gli ordini alla discussione, i provvedimenti specifici alle leggi generali. Senza che se ne accorgano, la simpatia politica per Trump trascina certuni verso un autoritarismo del quale non intravedono i pericoli per la libertà che nondimeno, generalmente parlando, sembrano non voler ripudiare.

Il presidente Trump non è classificabile. Egli è davvero come il pirandelliano “uno, nessuno e centomila”, posseduto da tutte le rabbie dell’America e del mondo. Dà l’impressione di volersene liberare proprio governando a modo suo l’America e il mondo. Assecondarlo è pericoloso. Imitarlo è ingannevole. Sbaglia sia chi lo considera di destra perché radicalmente contrapposto alla sinistra; sia chi intravede in lui un para-fascista repubblicano; sia chi lo eleva a modello di un nuovo modo di governare, se non addirittura di una nuova forma di governo; sia chi pretende di trarne ispirazione e insegnamenti non solo per gli indirizzi politici ma anche per le riforme costituzionali.

Il presidente Trump già vagheggia un terzo mandato. L’ha già prospettato pubblicamente. Prima del 1940 era tradizione consolidata che nessun Presidente dovesse ricoprire la carica per più di due mandati. “Fu la violazione della consolidata tradizione dei due mandati, operata dal secondo Franklin D. Roosevelt, a indurre il Congresso a proporre nel 1947 un emendamento alla Costituzione allo scopo di ridare valore alla tradizione elevandola a dignità costituzionale. La proposta diventò norma costituzionale nel 1951.” È l’emendamento 22: “Nessuno potrà essere eletto più di due volte alla carica di Presidente”. Contro questa disposizione sono destinate a infrangersi le ambizioni di Trump per un terzo mandato, a meno che riesca a farla abrogare con l’ostica procedura di modifica della Costituzione. Ciò che allo stato delle forze in campo, nel Congresso e negli Stati federati, appare impossibile. A proposito del divieto del terzo mandato (in piccolo interessa qui da noi il premierato, i presidenti delle Regioni e i sindaci) merita ricordare che “fu Thomas Jefferson a porre in rilievo il pericolo che più rielezioni del presidente potessero trasformare il mandato presidenziale in carica a vita e degenerare in un sistema ereditario”.

Sembra ragionevole una considerazione conclusiva sul prossimo quadriennio del presidente Trump: quelli che lo stimano, devono sapere che non potrà fare tutto il bene che se ne aspettano dalle miracolose promesse; quelli che lo disistimano, devono sapere che non potrà fare tutto il male che se ne aspettano dalle pericolose minacce. Furono i giudiziosi 39 firmatari della Costituzione, riuniti a Filadelfia nel 1787, che strapparono le radici dei vecchi sistemi assolutistici e stabilirono il nuovo ordine costituzionale sulla diffidenza verso il potere e verso gli uomini investiti del potere, dividendolo, limitandolo, conferendolo a tempo. Alla saggezza di quei Padri gli americani sono debitori dello scudo che da 236 anni li protegge “dalla crudeltà e dalla follia”, dagli eccessi e dagli abusi dei governanti, per quanto legittimati dall’elezione, smaniosi di prevaricare, sicuri di prevalere a lungo. E così protegge anche i popoli che, per amore o per interesse, vogliono o debbano avere rapporti con gli Stati Uniti d’America.

Aggiornato il 03 febbraio 2025 alle ore 12:06