Elon, l’ultimo eroe randiano

C’è un momento, nel crepuscolo californiano, in cui le torri di SpaceX si stagliano contro il cielo come cattedrali della modernità. È in quell’istante che Elon Musk sembra davvero uscito dalle pagine più visionarie di Ayn Rand, un personaggio che cammina sul confine sottile tra realtà e letteratura, tra pragmatismo brutale e sogno americano. Come Howard Roark o John Galt, porta sulle spalle il peso di una visione che brucia come ferro incandescente, una visione che trasforma il metallo freddo della tecnologia in poesia del futuro. La sua storia non inizia in un garage della Silicon Valley, ma nelle pagine ingiallite di La rivolta di Atlante, dove i creatori decidono di sfidare il mondo non con le armi della rivoluzione, ma con quelle più affilate dell’ingegno. Tesla non è solo un’azienda che produce auto elettriche: è una dichiarazione di guerra sussurrata al conformismo industriale, una cattedrale costruita non con pietra e vetro, ma con batterie al litio e sogni di libertà energetica. Nel suo sguardo c’è quella stessa luce febbrile che illuminava gli occhi dei personaggi randiani, quella miscela esplosiva di ossessione e visione che può trasformare il delirio in realtà tangibile. I suoi tweet sono schegge di pensiero che tagliano il velo delle convenzioni, aforismi digitali che potrebbero essere stati scritti nella solitudine di Galt’s Gulch, quel rifugio immaginario dove i creatori si ritiravano dal mondo per reinventarlo. SpaceX è la sua Wynand Tower che sfida non solo la gravità terrestre, ma anche quella più pesante delle convenzioni e delle impossibilità presunte. Ogni razzo che si alza verso il cielo è un pugno chiuso alzato contro il cielo dell’ordinario, ogni fallimento un gradino nella scala verso le stelle. Come Roark che ricostruiva dopo ogni crollo, Musk trasforma i rottami dei suoi razzi esplosi in scale per raggiungere Marte. L’acquisto di Twitter è stato il suo momento più randiano, un gesto teatrale che trasforma una piattaforma social in un esperimento filosofico. Come un alchimista digitale, cerca di trasformare il piombo della censura nell’oro della libertà d’espressione, in un laboratorio dove le idee combattono tra loro senza arbitrigiudici. C’è qualcosa di primitivo e allo stesso tempo futuristico nel suo modo di sfidare il sistema. Le sue fabbriche sono cattedrali dell’automazione dove i robot danzano una coreografia metallica, ma nei suoi occhi brilla ancora quella luce primitiva dell’inventore solitario, del creatore che vede forme nel caos. Come i protagonisti della Rand, vive in bilico tra due mondi: quello della materia che deve piegarsi alle leggi della fisica, e quello dello spirito che non accetta limiti. Le critiche gli scivolano addosso come pioggia su vetro temperato. Lo chiamano megalomane, lo accusano di vivere in un mondo di fantasia, ma è proprio questa sua capacità di abitare il confine tra possibile e impossibile che lo rende una figura così magnetica. Come Roark davanti alla giuria, trasforma ogni processo in un pulpito, ogni critica in un’opportunità per predicare il suo vangelo tecno-libertario. Nella notte texana, i prototipi di Starship brillano come torri d’argento sotto le stelle. Sono i suoi campanili, le sue cattedrali dedicate a un dio che ha il volto del progresso. Ogni test, ogni esplosione, ogni successo è un capitolo di una storia che sembra scritta con l’inchiostro dei sogni ma viene realizzata con il metallo e il codice. La sua visione di una civiltà multiplanetaria non è solo un progetto imprenditoriale, è una poesia scritta nel linguaggio degli ingegneri. Quando parla di città su Marte, nei suoi occhi si accende quella stessa luce che doveva illuminare lo sguardo dei primi colonizzatori davanti alla frontiera americana. È l’ultimo cowboy del capitalismo, ma il suo Far West è fatto di vuoto spaziale e algoritmi. C’è una solitudine essenziale in questa sua corsa verso il futuro, la stessa solitudine che pervade i personaggi della Rand. È la solitudine di chi vede troppo lontano, di chi cammina troppo avanti. Come un Prometeo moderno, ruba il fuoco non agli dei ma al futuro stesso, e lo porta nel presente nonostante le ustioni. In un’epoca in cui il cinismo corrode i grandi sogni come ruggine sul metallo, Musk rimane un credente. Crede nella capacità dell’individuo di piegare la realtà alla propria visione, crede che il futuro non sia una destinazione ma una creazione continua. È un personaggio randiano perché, come loro, ha trasformato l’egoismo in una forma estrema di generosità: il dono di un futuro possibile. Che lo si ami o lo si tema, Musk rimane un simbolo di quella particolare forma di follia americana che confonde i sogni con la realtà fino a quando la realtà non si arrende e accetta di assomigliare ai sogni. È l’ultimo titano di un’epoca che forse non crede più ai titani, l’ultimo romantico in un mondo che ha paura delle grandi visioni. Ma forse è proprio questo che lo rende così perfettamente randiano: la capacità di credere nell’impossibile fino a renderlo inevitabile.

Aggiornato il 21 gennaio 2025 alle ore 11:45