Riuscirà Donald Trump a evitare la sconfitta dell’Ucraina?

Le interpretazioni più o meno implicitamente filo-putiniane della guerra in Ucraina che hanno a più riprese trovato spazio su alcune testate giornalistiche italiane tendono a distorcere fatti, circostanze e dichiarazioni pur di favorire, più o meno deliberatamente, le strategie imperiali e criminali di Vladimir Putin. A questo riguardo risulta esemplare la tesi ricorrente secondo cui di questa guerra sarebbe stato responsabile Volodymyr Zelensky, che avrebbe impegnato il suo Paese in un tragico conflitto pur sapendo che non poteva vincerlo a causa della sproporzione delle forze in campo. Ora, pur essendo vero che le forze russe erano nettamente superiori, per uomini e mezzi, a quelle ucraine, il fatto che il Paese invaso sia ancora capace di resistere, dopo quasi tre anni, all’esercito invasore dimostra al contrario che non era affatto irrealistico per Kiev pensare di poter vincere questa guerra, cosi da conservare e rafforzare la propria indipendenza da Mosca ed entrare a far parte stabilmente dell’Unione europea

Certo, se l’Ucraina avesse potuto disporre prima delle armi che aveva richiesto ai suoi alleati, e soprattutto se le fosse stato concesso di utilizzarle nel modo più idoneo, ovvero potendo colpire in profondità le postazioni in territorio nemico, evitandole così di dover combattere con un braccio legato dietro alla schiena come di fatto è avvenuto, oggi la situazione sul campo avrebbe potuto essere molto diversa e a lei decisamente più favorevole. Le ragioni del divieto da parte dell’Europa e degli Stati Uniti a un simile utilizzo sono probabilmente riconducibili al timore di una ritorsione nucleare da parte del Cremlino, un timore certo comprensibile, ma forse non fondato, specialmente alla luce del fatto che quando questo divieto è stato tolto le roboanti e catastrofiche ritorsioni annunciate non ci sono state. Ma se quel divieto poteva essere tolto dopo quasi tre anni dall’inizio dell’invasione, allora poteva probabilmente essere tolto anche prima, o non essere mai imposto, modificando radicalmente lo scenario del conflitto sul campo. La persistenza di un tale veto ha infatti costituito per l’Ucraina un inconveniente non di poco conto, come si può evincere anche dal fatto che Zelensky ha più volte richiesto in modo accorato che esso fosse tolto.

Il fatto che poi Donald Trump, dopo la sua rielezione alla Casa Bianca e dopo che Joe Biden quel divieto aveva finalmente rimosso, si sia affrettato ad annunciare che intende restaurarlo, non può che gettare una luce sinistra sul destino dell’Ucraina, così come la circostanza che la rimozione di tale veto si sia realizzata con oltre due anni di ritardo rispetto a quanto sarebbe stato auspicabile. Per oltre due anni l’esercito ucraino non ha infatti potuto usare le armi occidentali a una distanza superiore agli 80 chilometri dal confine, mentre le postazioni russe da cui si lanciavano missili sulla sua popolazione, il suo esercito e le sue infrastrutture erano allocate sistematicamente oltre quella distanza. Quelle postazioni hanno così potuto agire indisturbate supportando l’avanzata russa sul territorio ucraino, tant’è che oggi, se non si può dire che Putin abbia già vinto la guerra, pare ogni giorno più probabile che a perderla tragicamente potrebbe essere proprio l’Ucraina.

La situazione precaria in cui la sua eroica resistenza si trova oggi non è infatti un’invenzione della disinformazione fomentata dal Cremlino, né, d’altro canto, si può ritenere che ci sia stata una sconfitta di Putin semplicemente per l’aver fallito il suo primo e massimo obiettivo, ovvero quello di una vittoriosa guerra lampo. La tesi, avanzata da alcuni commentatori nel corso degli ultimi due anni, secondo cui Putin, non avendo portato a termine come nei suoi migliori auspici l’operazione speciale – che aveva in effetti come primo obiettivo quello di conquistare Kiev, far cadere Zelensky e riportare l’ucraina alle condizioni di sudditanza da Mosca precedente alla rivoluzione di piazza Maidan – avrebbe di fatto perso la guerra, non pare tener conto che in realtà quella che Putin non ha vinto non è tutta la guerra, ma solo la sua fase iniziale, e cioè quella che aveva già perso tre mesi dopo il 24 febbraio del 2022.

La guerra è infatti ancora in corso ed è probabile, alla luce della situazione sul campo e delle soluzioni adombrate dal neo-presidente americano, che si concluda con una pace gravosa per l’Ucraina, e cioè con un esito non molto dissimile da quello che Zelensky rifiutò giustamente di accettare due mesi dopo l’invasione. Faccio qui riferimento al processo negoziale – rimasto non troppo a lungo segreto e riferito dal New York Times nel giugno di quest’anno – descritto da Samuel Charap, scienziato politico senior presso la Rand Corporation e docente in Politiche della Russia dell’Eurasia, e Sergey Radchenko, docente presso la Johns Hopkins University School of advanced international studies Europe, i quali hanno cercato di ricostruire le trattative intercorse tra Russia e Ucraina nel periodo compreso tra il 28 febbraio e il 15 aprile 2022.

All’inizio i colloqui si svolsero a poche miglia dal confine bielorusso-ucraino, in una delle residenze del presidente Alexander Lukashenko, ma poi proseguirono con incontri online. Gli ucraini erano soprattutto concentrati sulle garanzie che, nel caso di un accordo complessivo, avrebbero obbligato altri Stati a difendere il loro Paese da possibili attacchi della Russia. Zelensky voleva quindi qualcosa di più solido rispetto alle garanzie offerte dal memorandum di Budapest del 1994, che infatti non comportava un concreto ed esplicito impegno da parte degli Stati garanti a intervenire per far rispettare gli accordi. Ciò che ora rivendicava a tutela della propria effettiva indipendenza da Mosca era che questi Paesi garanti svolgessero una funzione analoga a quella che avrebbe potuto svolgere la Nato.

Le rispettive delegazioni s’incontrarono di nuovo in presenza, dopo qualche video-conferenza, a Istanbul il 28 marzo, e lì fu individuato un protocollo d’intesa in base al quale l’Ucraina sarebbe rimasta “uno Stato permanentemente neutrale e denuclearizzato”, avrebbe rinunciato “a qualsiasi intenzione di aderire ad alleanze militari, a partire dalla Nato” e non avrebbe quindi permesso “l’installazione di basi militari o truppe straniere sul proprio territorio”. Il comunicato elencava poi, come possibili garanti i membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Russia inclusa), insieme a Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia.

Anche se in base a tale virtuale accordo l’Ucraina sarebbe dovuta rimanere neutrale, la strada verso l’adesione all’Ue per lei sarebbe comunque rimasta aperta e gli Stati garanti, inclusa la Russia, si sarebbero impegnati a facilitare la sua adesione all’Unione europea. Inoltre, il comunicato conclusivo invitava le parti a risolvere pacificamente la disputa riguardo alla Crimea nel corso dei successivi 15 anni. È poi interessante notare che le due parti continuarono a lavorare intorno a quest’ipotesi d’intesa anche dopo la diffusione delle notizie relative ai massacri di Bucha e dopo il discorso di Zelensky al Consiglio di sicurezza dell’Onu, in cui paragonava la Russia all’Isis. Ma perché allora quest’ipotesi di accordo saltò?

Pare che, nella bozza del 15 aprile, i delegati di Putin, guidati dal suo consigliere Vladimir Medinsky, avessero preteso d’inserire la Russia tra gli Stati garanti, il che comportava, in pratica, che nel caso di un suo attacco all’Ucraina questi avrebbero potuto assumere l’iniziativa per cercare di farvi fronte solo con il consenso della stessa Russia. Boris Johnson consigliò ovviamente a Zelensky di non firmare, ma la proposta era così manifestamente inaccettabile che il presidente ucraino non ebbe in merito rilevanti esitazioni. Tramite la sua delegazione insistette però affinché fosse restaurata la formulazione originale, secondo la quale tutti gli Stati garanti avevano singolarmente l’obbligo d’intervenire in difesa dell’Ucraina anche se non avessero raggiunto tra loro un consenso a riguardo, soluzione che forse poteva costituire un discreto compromesso se non fosse anch’essa stata particolarmente scivolosa e in grado di attrarre numerosi imprevisti sul suo cammino.

In ogni caso la trattativa fallì e da allora, nell’impossibilità di ottenere delle garanzie di singoli Paesi – dato che nessuno, nemmeno gli Stati Uniti, erano contenti d’impegnarsi a fornirle – la questione si focalizzò con sempre maggiore evidenza sulla necessità dell’ingresso nella Nato, che rimane tutt’oggi lo snodo centrale di ogni ipotetica trattativa di pace. Sebbene Zelensky si sia ormai reso conto che dovrà cedere dei territori, forse anche tutti quelli occupati dalla Russia al momento di un eventuale inizio delle trattative, egli sa altrettanto bene che una simile perdita potrebbe essere degnamente compensata dall’ingresso nell’Alleanza atlantica e che in questo modo il carissimo prezzo pagato dal suo popolo per resistere all’invasore russo non sarebbe stato pagato invano.

Un prezzo così alto è, come si è accennato, in buona parte imputabile al fatto che gli alleati occidentali dell’Ucraina hanno preso molto sul serio le minacce nucleari di Putin fin dall’inizio del conflitto e hanno condotto tutta la guerra nella convinzione di poter provocare un crollo della Russia senza dover correre quel rischio, e cioè solo mediante l’azione combinata delle sanzioni economiche e della resistenza ucraina. Purtroppo però, almeno per ora, gli effetti di quest’azione combinata non hanno determinato, nonostante i reiterati segnali di consistenti scricchiolii, quel cedimento politico ed economico della Russia che gli stessi alleati auspicavano, cosicché oggi si profila per l’Ucraina, nonostante che gli sia stata finalmente offerta la possibilità di utilizzare le armi ricevute in profondità sul territorio russo, di dover intavolare delle trattative di pace con circa un quinto del proprio territorio occupato dagli invasori. La mancanza di soldati, la loro spossatezza insieme a quella della popolazione civile dopo quasi tre anni di una guerra durissima, unitamente alle già svantaggiate condizione di partenza rendono ben chiaro anche a Zelensky che non potrà mai recuperare quei territori sul campo senza l’intervento in suo aiuto di truppe di Paesi amici, cosa che però al momento è tutt’altro che un’ipotesi realistica.

Alla luce di queste circostanze, si può avere dunque il fondato sospetto che l’eroica resistenza del popolo ucraino e del suo esercito sia stata pilotata di fatto verso la sconfitta almeno per quanto riguarda gli esiti territoriali della guerra, e ciò per mero timore del ricatto nucleare del Cremlino. Questa sconfitta, tuttavia, potrebbe ancora tramutarsi di una parziale ma fondamentale vittoria per Zelensky se quel che rimane del suo Paese potesse entrare, oltre che nell’Ue, anche nella Nato. In altre parole, una pace accompagnata dall’ingresso nell’Alleanza atlantica sarebbe per l’Ucraina più di una mezza vittoria anche nel caso in cui dovesse perdere i territori occupati dall’esercito russo, e nel contempo sarebbe più di una mezza sconfitta per Putin, pur essendo compensata dall’acquisizione di quei territori.

Se questo dovesse essere l’esito, Putin riuscirebbe a salvare la faccia davanti al suo popolo potendo mostrare di aver conseguito i suoi obiettivi territoriali essenziali, e nonostante il danno enorme che con questa guerra ha inflitto al suo Paese, alla sua economia e alla sua gente potrebbe sperare in una graduale normalizzazione delle relazioni internazionali con l’Occidente e in una progressiva riabilitazione. Quel che resterebbe dell’Ucraina, d’altra parte, potrebbe finalmente godere di una reale, e probabilmente definitiva ed epocale, indipendenza da Mosca.

Il punto decisivo, quello considerato da Putin irrinunciabile in ogni ipotesi di trattativa, anche in quella che era iniziata in Bielorussia fin dal marzo del 2022, è quindi tale anche per il Presidente Zelensky. Ma qualora Putin, come già nel marzo-aprile del 2022, non dovesse transigere su questo punto, la sconfitta per l’Ucraina sarebbe conclamata, perché non avrebbe alcuna solida garanzia di poter preservare né la propria indipendenza né le proprie istituzioni democratiche, o almeno non potrebbe averle senza un impegno esplicito degli Stati Uniti a farle rispettare.

La valutazione della vittoria o della sconfitta dell’uno o dell’altro dei belligeranti non dovrebbe dunque essere ricondotta alle aspirazioni massime e iniziali di Putin, svanite nel nulla dopo appena tre mesi, né a quelle di Zelensky, che purtroppo è ormai poco probabile poter realizzare, ma all’esito che le trattative di pace avranno intorno a questo punto cruciale. Se la nuova Amministrazione Trump dovesse cedere su questo aspetto la vittoria di Putin sarebbe effettiva, soprattutto agli occhi del popolo russo, nonostante che sia stato usato cinicamente come carne da macello: stordito dal terrore e dalla rassegnazione,  la vittoria sul campo del suo nuovo Zar non dev’essere parsa a molti dei suoi cittadini un’impresa da poco e potrebbe indurre una loro ampia maggioranza a seguire il loro capo – per molti, ahimè, ormai carismatico – nel suo delirante progetto di restaurare i confini occidentali dell’Urss durante la Guerra fredda.

Ma è utile ribadire che se si verificasse questa situazione non sarebbe certo per responsabilità dell’Ucraina, che ha combattuto con impareggiabile coraggio, difendendosi come forse meglio non si poteva fare da un esercito molto più numeroso e dotato di armi micidiali, incluse circa 6mila testate nucleari capaci di paralizzare a distanza la reazione dei Paesi occidentali. Con una loro condotta meno pavida, ovvero non ponendo in essere i divieti cui si fatto cenno, oggi l’Ucraina si sarebbe potuta presentare al tavolo delle trattative da una posizione molto più vantaggiosa, con una capacità di combattimento e di resistenza assai più efficienti e dunque anche con maggiori chance di poter imporre, insieme ai suoi alleati, il proprio ingresso nella Nato. Se riuscisse comunque a farne parte potrebbe ritenere di aver riportato la vittoria sulla questione più importante. Altrimenti non potrà che essere gradualmente e inesorabilmente risucchiata sotto il controllo russo e la sua “sconfitta pilotata” si sarà compiutamente realizzata. In quest’ultima nefasta ipotesi, infatti, Putin risulterebbe il vincitore del conflitto proprio insieme alla Nato, che dal canto suo si è nel frattempo rafforzata grazie all’ingresso della Finlandia e della Svezia, che hanno deciso di varcare la sua soglia proprio paventando la triste sorte toccata all’Ucraina.

I suoi alleati occidentali, però, non ne uscirebbero bene. Se questa “sconfitta pilotata” dovesse essere imposta a un Paese desideroso di far parte a pieno titolo della comunità degli Stati democratici e che ha strenuamente difeso, per circa tre anni, l’Europa dalle minacce di uno dei più sanguinari dittatori criminali della storia, sarebbe una sconfitta dalle conseguenze imprevedibili per tutto l’Occidente e un incoraggiamento per Putin a proseguire nell’attuazione del suo disegno imperiale.

Anche se qualche condizione a tutela dell’Ucraina verrebbe comunque adottata, il sogno del suo popolo di diventare a titolo definitivo un Paese realmente indipendente da Mosca svanirebbe forse per sempre. Senza l’ingresso nella Nato – o almeno senza garanzie dirette fornite dagli Stati Uniti, e dunque da Donald Trump – non solo l’Ucraina verrebbe sconfitta proprio grazie alle circostanze che hanno rafforzato l’alleanza atlantica, ma tutto l’Occidente avrebbe dimostrato di credere solo condizionatamente e strumentalmente ai valori che propugna, il che sarebbe a sua volta l’ulteriore conferma della decadenza della sua civiltà politica.

Aggiornato il 03 gennaio 2025 alle ore 18:16