Il popolo siriano ha vinto la sua battaglia e ora pretende che gli sia fatta giustizia. Tuttavia, considerato che la Siria non ha aderito alla Corte Penale Internazionale (Cpi), c’è da superare il veto di Cina e Russia al Consiglio di Sicurezza Onu per ottenere il rinvio (come da regolamento della Cpi) alla stessa Corte.
In alternativa, resta da capire presso quale sede di giustizia internazionale occorra istruire un procedimento per la persecuzione dei crimini contro l’umanità, commessi dall’ex regime durante mezzo secolo di dittatura. Ovvero, si rende necessario individuare quale sia l’istanza di giustizia internazionale legittimata a emettere mandato di cattura internazionale contro Bashar al-Assad, che ha trovato rifugio a Mosca.
Ovviamente, l’ex presidente Barak Obama dovrà prima o poi chiarire perché a suo tempo non ritenne di prendere nessuna iniziativa simile per rendere giustizia alle vittime siriane, quando l’aviazione del dittatore utilizzò i gas nervini contro la popolazione innocente e disarmata.
Ora, la comunità internazionale si chiede se, per caso, non sia giunta l’ora, dopo mezzo milione di morti nella guerra civile e la scoperta recente di gigantesche fosse comuni, di intentare causa presso un’istanza internazionale di giustizia contro i responsabili dell’ex regime.
Quale è la proporzione che si fa tra Bashar al-Assad e Benjamin Netanyahu, in materia di crimini contro l’umanità? Lasciamo che sia il futuro governo siriano a farlo, o vogliamo presentare tutti noi occidentali una sorta di class-action contro i crimini commessi dal dittatore?
A norma del diritto internazionale vigente, l’unica alternativa per processare al-Assad, come fu fatto per la Sierra Leone e il Kosovo, è l’istituzione da parte dell’Onu di un Tribunale ad hoc. In questo caso, varrebbe la legge penale siriana e il compito della nuova leadership sarebbe di garantire un giudizio imparziale, ben sapendo che allo stato attuale il sistema giudiziario siriano è privo della necessaria capacità e credibilità ad agire.
Un altro scenario alternativo, sulla falsariga di quanto fatto nei casi di Sud Africa, Cile e Ruanda, è l’istituzione di un para-tribunale, che possa pendere in considerazione sia il caso giudiziario, sia adottare misure extra giurisdizionali, come la creazione di una commissione di riconciliazione per l’accertamento dei fatti veritieri. Ovviamente, è compito degli stessi siriani trovare un modello appropriato per perseguire i gravissimi reati commessi dall’ex regime, una volta ripristinato un minimo di qualità della vita per il popolo siriano. Ma, la storia insegna che bisogna fare al più presto i conti con il proprio passato, non lasciando che passi troppo tempo prima di fare giustizia. Volendo istruire il caso presso una giurisdizione internazionale di giustizia contro i responsabili politici e militari dell’ex regime, si possono utilmente prendere in considerazione gli 1,1milioni di documenti interni e le migliaia di testimonianze delle vittime di al-Assad, acquisiti negli anni dalla Ong The Commission for Internazional Justice and Accountability. Stesso ragionamento per quanto riguarda le prove in possesso di un’altra organizzazione para-giudiziaria, l’Impartial and Indipendent Mechanism, che fa riferimento alle Nazioni Unite.
E comunque, onde evitare che nel caos attuale sia sottratto un gran numero di prove documentali sulle atrocità commesse dai servizi segreti e dagli uomini di al-Assad, è considerata della massima importanza l’istituzione, da parte del governo ad interim siriano, di una commissione d’inchiesta indipendente. Il suo compito sarà di esaminare con la massima urgenza i documenti abbandonati alla rinfusa nelle prigioni e nei palazzi del potere dagli uomini del regime in fuga, al fine di una rapida e imparziale condanna degli autori dei crimini contro l’umanità.
Intanto in attesa delle decisioni di al-Jolani, tutto il mondo trattiene il fiato sperando in un futura Siria pacificata. Tutti, meno Israele ovviamente, che si è portata avanti con il lavoro, distruggendo quanto più possibile materiale bellico del dissolto esercito regolare siriano, che gli ex militari hanno abbandonato nella loro fuga precipitosa, gettando alle ortiche la divisa, come accadde qui da noi dopo l’8 settembre 1943.
Per la situazione interna ai palazzi del potere di Damasco, valgono per ora le dichiarazioni recenti di al-Jolani, secondo il quale l’Hts deve adottare una mentalità statuale, abbandonando quella frontista, che gli ha consentito di disfarsi di un regime tirannico e sanguinario, ormai dissolto e sconfitto. Occorre, quindi, siglare un nuovo contratto sociale tra il nuovo Stato voluto dalle fazioni alleate che hanno sconfitto al-Assad, con le altre realtà etnico-religiose siriane: drusi, cristiani e curdi.
Per questo, vanno smobilitate al più presto le formazioni dei miliziani, facendole confluire in un nuovo esercito regolare nazionale. Nel frattempo, le diplomazie occidentali si stanno muovendo per ripristinare a Damasco le loro rappresentanze diplomatiche, chiuse da decenni, così come hanno fatto già il Qatar e lo “Stato-sponsor” della Turchia. Tra l’altro, Recep Erdogan gode della stima ammirata dell’entrante Presidente Usa, che lo considera il vero leader forte del Medio Oriente.
Un altro arduo compito di al-Jolani sarà quello di abbandonare la coscrizione obbligatoria e di disarmare la popolazione, affinché soltanto i militari di carriera siano autorizzati a portare armi in pubblico. Dopo la caduta di al-Assad, al primo ordine assoluto delle priorità della nuova leadership si colloca la questione della sicurezza: in tal senso, l’Hts deve convincere tutti, all’interno come all’esterno della Siria, che è l’unica a poter garantire la stabilità del Paese.
Va positivamente segnalata in merito l’iniziativa del nuovo Ministro dell’Interno (vicino ad al-Jolani), che ha avviato il reclutamento nella capitale per agenti di polizia, aperto a tutte le componenti etnico-religiose siriane. Insomma, il dilemma è sempre quello dopo la caduta di un regime feroce: pacificazione o caos?
Aggiornato il 02 gennaio 2025 alle ore 10:15