Il protezionismo del presidente degli Stati Uniti

La pretesa di “Trump the Duty” di salvare l’America intralciando il libero scambio

Il “presidente eletto” degli Stati Uniti, Donald Trump, il 20 gennaio 2025 giurerà ed entrerà in carica. Metterà in atto la politica sbandierata in campagna elettorale. America first e Make America Great Again sono stati i suoi slogan vincenti. Adesso dovrà passare dalla réclame ai prodotti, dal dire al fare. Userà l’arma sbandierata nei comizi fino alla nausea. Rifarà grande l’America, che di suo lo è già, dispiegando i dazi alle frontiere, come un’armata difensiva dell’economia americana. È visceralmente innamorato delle misure protezionistiche, tanto che lo chiamano pure “Trump the Duty”, “Donald il dazio”. Lui non ha minimamente spiegato la dottrina sulla quale ha eretto con incrollabile fiducia il monumento all’efficacia risolutiva delle misure protezionistiche. Sono stati i commentatori ad attribuirgli gli scopi che egli intenderebbe perseguire tassando le importazioni: primo, costringere i Paesi esportatori negli Usa a rinegoziare le tariffe doganali fino a raggiungere uno standard di comune convenienza nello scambio. Secondo, colpire selettivamente i prodotti d’importazione sgraditi per qualche ragione politica, economica, morale. Cosa abbia davvero in testa a riguardo Trump the Duty non l’ha capito nessuno. Forse neppure lui, che ha brandito i dazi come la Durlindana per sbaragliare la concorrenza (di nemici, avversari, amici), ha piena contezza di chi, cosa, quando, quanto colpire. Il suo temperamento improvvisatore sembra averlo fatto infatuare del protezionismo, che egli intende non solo come fondamentale misura di politica economica in senso proprio ma anche come indispensabile strumento intimamente funzionale alla politica estera.

Vuoi adoperati come tattica, vuoi come strategia, i dazi innescheranno reazioni e modificheranno le ragioni di scambio, ossia il prezzo di ciascun bene in termini dell’altro. Se le reazioni saranno energiche e il rapporto dei prezzi insostenibile scoppierà una guerra commerciale, aperta o sotterranea. Il protezionismo pare corrispondere alla concezione di Trump secondo cui il commercio internazionale non è altro che una lotta tra Nazioni condotta con mezzi diversi dalle armi propriamente dette, nella quale vince chi esporta di più e importa di meno. Negli scambi con l’estero, l’uno vince e l’altro perde, sembra credere Trump. Per quanto gli scambi internazionali non siano paragonabili allo scambio volontario regolato dal diritto entro un libero Stato, resta che pure gli scambi tra l’importatore e l’esportatore realizzano l’interesse di entrambi, diversamente lo scambio non avverrebbe. Rendere difficile o impossibile il commercio estero modificando artificiosamente le ragioni di scambio delle merci significa semplicemente sottrarre ai propri concittadini, ai consumatori interni, beni e servizi altrimenti disponibili. Il che vuol dire ridurne l’autodeterminazione, cioè la libertà personale. Proteggere le imprese nazionali con “dazi compensatori” sui prodotti esteri per equipararne il prezzo ai prodotti interni risulta masochistico perché: primo, sussidia la produzione interna che si ridurrebbe senza il dazio; secondo, la sottrae agli incrementi di produttività di cui beneficerebbe se esposta alla concorrenza straniera; terzo, i contribuenti pagano una tassa occulta.

Il protezionismo di Trump appare basato anche su altri presupposti, del pari controproducenti. Certo, non intenzionalmente. Tuttavia “Trump the Duty” è andato dicendo che globalization makes America small, sebbene giustamente non lo creda davvero, stando ai fatti. Eppure nei comizi ha continuato ad insistere su idee stravaganti professate con piglio assertivo. Non è vero, infatti, che i dazi doganali siano “bellissimi” perché li paga l’estero. È folle il solo pensarlo. Questi dazi gravano sulle merci importate e quindi vengono effettualmente pagati dai consumatori, anche discriminando deliberatamente i meno abbienti (altro che in favore dei lavoratori) a misura che il dazio cresce. Inoltre, neppure è vero che il protezionismo sia diretto a favorire il lavoro. Il lavoro aumenta se cresce la produzione di beni e servizi per l’incremento della produttività generale, la quale è determinata dalla concorrenza che consegue all’adozione del liberoscambismo. L’aumento dell’occupazione non significa di per sé che “il lavoro sia favorito”. Può aversi un’alta occupazione con il prodotto nazionale stagnante o addirittura declinante quando il monte delle retribuzioni viene spartito tra molti occupati che guadagnano retribuzioni basse (così sembra potersi spiegare la presente condizione dell’Italia). Infine, non è vero neanche che i dazi servano ad evitare che il libero scambio avvantaggi il Paese dove i salari sono più bassi. Gli operai dei Paesi maggiormente esportatori sono in generale meglio retribuiti che altrove, a parte situazioni e considerazioni particolari. Al dunque, gl’inconvenienti del protezionismo sono almeno cinque: rincaro delle merci, contrazione della produzione nazionale, riduzione delle esportazioni, rallentamento della produttività, diminuzione delle entrate fiscali.

In conclusione può dirsi che la guerra commerciale a colpi di dazi, minacciata da Trump contro tutti, non porterà i vantaggi generali prospettati demagogicamente all’elettorato americano mentre comporterà per gli altri popoli coinvolti loro malgrado gl’inconvenienti risaputi. Nondimeno, nel mondo dei rapporti internazionali, quando la geopolitica impone le sue clausole nei trattati commerciali, le ragioni di scambio sfuggono all’economia e cedono alla politica di potenza.

Aggiornato il 16 dicembre 2024 alle ore 17:39