Prima della rivoluzione, “involuzione”, del 2011 la Siria contava ventidue milioni di abitanti. Considerato uno degli Stati chiave del Medio Oriente, ancora più strategico dopo il crollo dei regimi iracheno (2003) e libico (2011), il regime di Bashar al-Assad era tenuto in piedi da Russia e Iran. Per l’Iran la Siria ha un valore anche confessionale, oltreché strategico, in quanto inglobato in quella che viene definita la Mezzaluna sciita. Per la Russia era il suo baricentro in una area geostrategicamente complessa ma irrinunciabile. La condivisione dei confini con Libano, Israele, Giordania e Turchia incrementa la criticità politica e espande a livello esponenziale gli interessi “esterni” verso questo territorio, dalla Storia cristiana unica. E soprattutto dal 2011 (Primavera araba), è al centro di questioni territoriali, economiche e militari che rendono una gestione dello Stato completa impossibile. Infatti, il tessuto sociale e la sua geografia, sono devastati da una frammentazione socio-etnica, inserita nel quadro di una guerra civile nella quale sono intervenute quasi tutte le potenze vicine e anche le nazioni militarmente più potenti. La corrente alawita degli Assad governava da cinquant’anni, e la caduta del regime siriano rappresenta una svolta storica per la Siria, ma anche uno sconvolgimento per l’intero equilibrio geopolitico del Medio Oriente.
Ma quello che è accaduto apre a speranze o a preoccupazioni? Brevemente, per comprendere cosa sta accadendo oggi, e se le speranze superano le preoccupazioni, bisogna sapere come ci si è arrivati. Innanzitutto, la rivoluzione del 2011, diffusasi a macchia d’olio in molti Paesi musulmani. Manifestazioni massicce e senza precedenti che denunciavano i dittatori al potere. Ma in realtà erano presidenti di Stati musulmani difficilmente governabili in modo diverso. In Siria inizia tutto nella città di Daraa, a sud del Paese, con delle scritte sui muri tracciate da adolescenti che riportavano slogan contro Bashar al-Assad. La polizia arrestò e torturò i genitori di questi ragazzi per settimane. E alle proteste dei parenti il capo della Polizia della città, cugino di Assad, minacciò di violentare le loro donne se non avessero cessato le manifestazioni.
I mesi successivi la repressione del Governo si accentua, la città viene assediata entrano carri armati, si spara sulla folla causando centinaia di vittime, intanto che i simboli del regime vengono abbattuti. Tuttavia il dado è tratto. Centinaia di migliaia di siriani scendono in piazza contro la corruzione e per la democrazia. Ma in base a quale “cultura democratica”? Comunque la repressione segue le classiche modalità: brutalità contro giornalisti, oppositori, società civile, artisti che vengono spesso eliminati: il tutto concentro nelle prime settimane. Il ruolo degli shabiha, i mercenari, o teppisti, del regime, si esalta con violenze sessuali sulle donne che manifestano. La famigerata prigione di Saidnaya, vicino a Damasco, divenne un campo di concentramento dove morirono quasi trentamila persone.
Ma la tattica di Bashar al-Assad fu quella di liberare i prigionieri jihadisti per farli unire ai ribelli, trasformando una protesta da “laica” in “confessionale”. Fatalmente questa sua azione è stata la causa, a distanza di anni, della sua deposizione. In pratica la teoria machiavellica di Assad era che, più la rivoluzione assume connotati islamisti, più può incarnare la figura del leader “laico” fondamentale per bloccare la deriva jihadista-terroristica. Il suo piano ebbe successo, la ribellione subì la repressione armata, e anche il programmato afflusso di jihadisti nei gruppi ribelli avvenne. La rivoluzione partita dagli adolescenti di Daraa si trasformò in un incubo e in una guerra civile. Il tutto fu completato dall’appoggiato della Mezzaluna sciita: Iran e milizie sciite provenienti da Iraq e Teheran, Libano (Hezbollah), Yemen e Afghanistan. Poi i russi, che oltre costruire basi proprie in Siria, bombardarono intere città occupate dai jihadisti, anche dell’Isis. Inoltre, l’Occidente preferisce questo dittatore che conosce i folli del jihad, a una alternativa non utile.
Fu una vittoria di Pirro. La Siria è tutt’oggi più che mai frammentata e incontrollabile, nemmeno dal capo attuale il leader degli insorti Abu Mohammed al-Jolani. Infatti, varie fazioni islamiste condividono territori e talvolta si scontrano tra loro, gruppi anarchici solcano anche Damasco dove stanno macellando gli ex uomini del regime. E le utopistiche voci che inneggiano alla libertà dell’islamismo jihadista sembrano stimolate più dal terrore di subire vendette che dalla convinzione. Poi c’è la questione dei curdi che stanno consolidando le loro posizioni nella gestione del Kurdistan siriano, terra a loro storicamente appartenente.
In realtà, la Siria (come l’Iraq di Saddam Hussein), è stata governata sotto gli Assad dal Partito Baath, un movimento ideologico socialista, o meglio sociale, fondato nel 1947 dal siriano cristiano ortodosso Michel ‘Aflaq, dal musulmano sunnita Salah al-Din al-Bitar e dall’alawita Zaki al-Arsuzi. In sintesi, lo Statuto del partito prevede al punto due che la donna ha gli stessi diritti dell’uomo: oggi non garantito dall’attuale potere.
Comunque nonostante che il nuovo capo del Governo siriano, Mohammad al-Bashir, indossi giacca e cravatta all’occidentale, e che Mohammed al-Jolani non manifesti “segni caratteristici” del fondamentalismo sunnita, e pare che abbia nominato il vescovo cristiano di Aleppo prefetto della città, mentre la minoranza religiosa ismailita di Salamiyah, vicino ad Hama, favorendo l’ingresso in città ai ribelli, tutto dovrà essere ridefinito. È chiaro che la coalizione che ha deposto Assad non è dalla parte del progressismo e della libertà dei popoli. È dominata dagli islamisti, precedentemente sostenuti dalla Turchia, e molti combattenti non islamisti si sono liberati ancor prima di essere raggiunti dall’Hts di Mohammed al-Jolani, ex membro di Al Qaida e personaggio inquietante e anche fondatore del gruppo jihadista Fronte al-Nusra. Prima che arrivasse l’Isis, nel 2013, in piena guerra civile, al-Nusra contava appena quattromila miliziani, tutti ben addestrati e armati dall’Occidente, il che conferiva loro un ruolo di primo piano nella ribellione. All’epoca il ministro degli Esteri francese dichiarò che il gruppo jihadista stava lavorando bene. Poi è arrivata l’Isis. Il cambiamento attuale è molto complesso e incerto, a mio parere non stabile, ed evolve molto rapidamente. Quindi è difficile prevedere quali saranno gli sviluppi. Una cosa è certa: lo “scenario” è sempre più affollato e mentre Russia e Iran, per ora, arretrano sul palco, Israele avanza.
Aggiornato il 11 dicembre 2024 alle ore 10:31