La caduta del regime di Bashar al-Assad e l’attuale frammentazione della Siria segnano un momento storico, ma lasciano il Paese in uno scenario di estrema complessità. Con la dissoluzione del potere centrale, la Siria sembra avviarsi verso una realtà fatta di entità autonome o semi-autonome, ciascuna controllata da diverse forze militari e politiche, rendendo concreta l’idea delle “sirie”.
Il territorio è oggi diviso tra:
1) Hay’at Tahrir al-Sham (Hts), guidata da Abu Mohammad al-Jolani, che domina ampie porzioni del Nord-Ovest;
2) Le forze curde del Rojava, che gestiscono una struttura autonoma nella Siria nord-orientale;
3) Le forze filo-turche, rappresentate dal Governo siriano ad interim e dall’esercito nazionale siriano;
4) Ribelli locali, come il fronte sud di Dara’a, che integrano milizie druse e altre componenti;
5) Rifugiati del regime assadista, con Assad apparentemente fuggito verso la Russia, lasciando il primo ministro Mohammad Ghazi al-Jalali a fronteggiare simbolicamente il passaggio di potere.
La Siria non è mai stata unita pienamente nemmeno nelle fasi più solide del regime di Assad. Ora, con la caduta definitiva del potere centrale, questa frammentazione sembra consolidarsi. La fine del regime Baathista pone sfide enormi:
1) La governance condivisa: Hts, con il suo leader al-Jolani, propone un modello islamico “inclusivo” che promette rispetto per le minoranze. Tuttavia, le sue radici jihadiste e i conflitti passati con altri gruppi sollevano dubbi sulla sua credibilità;
2) La conciliazione delle fazioni: Le differenze ideologiche e strategiche tra i vari gruppi anti-regime, dalle forze jihadiste a quelle democratiche, rischiano di portare a nuovi conflitti interni;
3) La ricostruzione: Dopo anni di guerra, il tessuto sociale e le infrastrutture sono distrutti. La ricostruzione richiederà risorse immense e il ritorno dei rifugiati, ma anche un accordo minimo tra le fazioni per evitare ulteriori lacerazioni;
4) La questione curda: Le forze curde del Rojava, pur avendo combattuto l’Isis e mantenuto una certa autonomia, rimangono un attore chiave ma potenzialmente in conflitto con altre fazioni sunnite.
L’unica soluzione fattibile potrebbe essere un modello confederale, con cantoni legati al controllo militare delle fazioni e una debole autorità centrale, almeno per il momento. Tuttavia, esempi come la Libia mostrano che la transizione da un sistema frammentato a uno stabile è estremamente complessa, spesso caratterizzata da ulteriori guerre di potere. Infatti, sebbene il discorso di al-Jalali possa sembrare un passo simbolico verso una transizione pacifica, la realtà sul terreno è dominata da milizie armate, interessi geopolitici internazionali (Turchia, Iran, Russia, Stati Uniti), e un’eredità di odio e sfiducia tra le diverse comunità. Le promesse di elezioni e riconciliazione nazionale sono destinate a essere messe alla prova dai fatti.
Nonostante quanto sopra premesso, ogni volta che si assiste a delle rivolte contro il regime dominante in una nazione del Medioriente si inizia a fantasticare e a esaltarsi in nome di sedicenti liberazioni dal dittatore di turno. Il succitato fenomeno lo abbiamo riscontrato anche durante la cosiddetta “Primavera araba”, durante la quale i politologi e i media manifestavano tutto il loro incoraggiamento e consenso verso questa rivoluzione contro l’ordine costituito dell’Africa del nord. In seguito, quod erat demonstrandum, abbiamo verificato sia le vere cause della suddetta rivoluzione sia gli effetti destabilizzanti e violenti che essa stessa ha di conseguenza generato. Effetti che noi italiani abbiamo subito a caro prezzo con i flussi di emigranti clandestini provenienti da quelle zone e con la distruzione dell’accordo economico raggiunto dal Governo italiano e quello libico di Muammar Gheddafi, ucciso dai rivoluzionari.
Pertanto, gli sconsiderati ottimismi di circostanza di certa stampa confermano la solita miopia analitica, che, in malafede o per ignoranza, omette di evidenziare la tempistica dell’escalation della rivolta in Siria, stranamente in atto proprio dopo che l’Ucraina ha perso terreno nel conflitto con la Russia, la quale, guarda caso, è alleata con la Siria del presidente Assad. L’aspetto più inquietante è rappresentato maggiormente dal fatto che il leader di questa rivolta, Abu Mohammad al-Jolan, è un pericoloso terrorista islamico.
Invero, rammentando che l’organizzazione criminale e terroristica Isis fu addestrata e finanziata dalla Cia (come riconobbe in seguito lo stesso segretario di Stato statunitense di allora Hillary Clinton) per combattere Assad, con tutte le conseguenze che abbiamo subito successivamente noi occidentali, si rischia di veder ripetere gli stessi errori o, per meglio dire, gli stessi orrori. Per chi non ha alcuna contezza di chi sia il leader della rivolta in Siria, il terrorista jihadista Abu Mohammad al-Jolani (Ahmad Husayn al-Spara) rappresenta una figura centrale nella guerra civile siriana, con un percorso che lo ha portato dalla militanza in al-Qaeda in Iraq alla guida dell’organizzazione Hay’at Tahrir al-Sham (Hts). Questa organizzazione, nata dal Fronte al-Nusra, ha cercato negli anni di ridefinire la propria immagine, rompendo ufficialmente i legami con Al-Qaeda nel 2016 e operando un rebranding per apparire più come una forza politica e militare locale che come un gruppo terrorista globale.
Hts è stata inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche dagli Stati Uniti, dall’Onu e da diversi altri Paesi, nonostante i tentativi di Al-Jolani di presentare un’immagine più “politica” e moderata rispetto al passato. Sebbene sia coinvolto nella lotta contro il regime di Bashar al-Assad, l’organizzazione mantiene metodi violenti e radicali, mentre il suo leader cerca di acquisire consenso sia internamente che a livello internazionale attraverso il controllo territoriale e il posizionamento strategico nel nord-ovest della Siria. L’ambiguità di Al-Jolani, che ora si propone come aspirante statista pur rimanendo radicato in un passato jihadista, lo rende una figura particolarmente complessa e pericolosa nell’instabile scacchiere siriano.
A volte, alcuni detti popolari portano con sé grande saggezza illuminante, come quello che sostiene “fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio”. Quindi, speriamo che esista un corrispondente proverbio anche nella cultura statunitense e che soprattutto venga recepito dai poteri che gestiscono l’amministrazione degli Stati Uniti d’America.
Al postutto, la Siria del post-Assad non sarà una democrazia compiuta nell’immediato, ma piuttosto un mosaico di poteri locali, dove il pragmatismo politico e la mediazione internazionale saranno indispensabili per evitare che il Paese cada in un conflitto perpetuo.
Aggiornato il 09 dicembre 2024 alle ore 10:44