Il Personal Consumption Expenditure, indicatore che la Federal Reserve Bank statunitense utilizza per calcolare la pressione sui prezzi dei principali beni di consumo, ha registrato un rialzo del +2,3 per cento su base annua nello scorso mese di ottobre: un incremento dello 0,2 per cento rispetto al 2,1 per cento del precedente mese di settembre, evidente segnale di come la morsa inflazionistica che attanaglia imprese e consumatori non accenna ad allentare la presa sull’economia statunitense. A tal riguardo, un sondaggio exit poll di Edison Research – la cui attendibilità è stata confermata dai risultati definitivi dei seggi – evidenzia come l’economia e, per conseguenza diretta, l’inflazione fossero il principale fattore nella scelta del candidato presidente per circa il 31 per cento degli elettori – il 79 per cento dei quali ha espresso preferenza per Donald Trump. Ancor più ragguardevole il dato relativo al voto degli americani che sostengono che l’inflazione abbia causato loro gravi disagi economici nell’ultimo anno: fetta che rappresenta il 25 per cento della popolazione, di cui il 73 per cento ha preferito Donald Trump a scapito di Kamala Harris.
Con una vittoria landslide riportata in una tornata elettorale determinata in modo così palese e prominente dalla manifesta incapacità dell’Amministrazione Biden di contenere il carovita – che toccò vette record del +9,1 per cento su base annua nell’estate 2022 – sarebbe logico attendersi, in attesa del suo ritorno alla Casa Bianca, l’annuncio da parte di Trump di politiche volte a contenere l’inarrestabile corsa dei prezzi. Al contrario, il presidente eletto ha reso nota l’intenzione di introdurre, di pari passo a un ulteriore inasprimento del 10 per cento dei dazi sulle importazioni di prodotti dalla Cina, nuove tariffe doganali del 25 per cento ai danni dei confinanti Messico e Canada – importanti partner commerciali per Washington ma reputati dal tycoon responsabili di flussi migratori clandestini e narcotraffico in ingresso negli Stati Uniti.
È facile dedurre come gli avvertimenti di Trump ai vicini di casa rientrino in una più ampia strategia volta a indurre il Canada a sostenere le politiche protezionistiche statunitensi contro Pechino (con dazi già introdotti da Ottawa di cui abbiamo trattato in questo articolo) e il Messico a dispiegare maggiori risorse nella lotta ai trafficanti di stupefacenti e di esseri umani al confine sud degli Usa, che potrebbe risultare particolarmente efficace in vista del rinnovo in bilico del Nafta, Accordo di libero scambio Usa-Canada-Messico, con scadenza nel 2026. Tuttavia, come stimato da osservatori quali il Wall Street Journal, qualora la negoziazione e gli strumenti di leverage vantati dal presidente eletto sui Paesi confinanti dovessero naufragare, gli effetti negativi già evidenti di accresciute misure protezionistiche contro Pechino sul tasso d’inflazione a Washington non potrebbero che lievitare ulteriormente. Di fatti, l’istituto di ricerca Budget Lab dell’Università di Yale sostiene che, con lo schema di dazi promessi dal tycoon e considerando eventuali misure doganali di “rappresaglia” dei Paesi che ne cadono vittima, il tasso di inflazione statunitense crescerebbe dello 0,75 per cento su base annua, equivalente a più di mille dollari di perdita di potere d’acquisto per ogni famiglia americana: un quadro macroeconomico che, con ogni probabilità, porterebbe la Federal Reserve Bank a tagliare i tassi di interesse decisamente meno di quanto auspicato da imprese e risparmiatori.
Si tratterebbe, con tutta evidenza, di un modo non particolarmente brillante di inaugurare una presidenza che, per la tendenza del voto popolare e per le maggioranze espresse presso Camera e Senato, avrebbe tutte le carte in regola per puntare a un clamoroso bis nel 2028, che conferirebbe a Trump il Governo del Paese per un totale di dodici anni. Non occorre dimenticare, infatti, che il controllo del Congresso e di molti Stati chiave viene rinnovato ogni due anni: un orizzonte temporale dimezzato rispetto a quello delle presidenziali, soprattutto alla luce della volatilità del consenso di un elettorato che ha manifestato in modo così fragoroso il proprio disappunto per un’economia in cui è sempre più difficile vivere – con un americano su due che sostiene di versare in condizioni peggiori di quattro anni fa. In ultima analisi, sin da prima del suo insediamento, Donald Trump è chiamato all’arduo compito di soddisfare richieste del proprio elettorato ed esigenze di realpolitik apparentemente difficili da conciliare, in un impasse che impone un ripensamento delle strategie geopolitiche con cui gli Stati Uniti possano pretendere (e ottenere) che tanto gli alleati quanto i rivali sullo scacchiere globale acconsentano ai diktat di Washington senza pagarne lo scotto. Ogni evidenza suggerisce che la strada più proficua per raggiungere l’obiettivo sia quella di una schietta e leale cooperazione, ma i segnali che provengono da Mar-a-Lago appaiono ben più belligeranti.
Aggiornato il 29 novembre 2024 alle ore 09:27