L’entusiasmo di numerosi liberali per la vittoria di Donald Trump ha sollevato diversi interrogativi. È evidente che il presidente eletto si discosti in modo netto dai principi del liberalismo classico, mostrandosi lontano sia dal sostegno convinto al libero mercato che dalla tutela delle libertà individuali. Ascoltare i suoi discorsi, analizzare il suo programma o esaminare le sue azioni da presidente è sufficiente per rendersene conto. Ciò che rende Trump tanto popolare, quindi, sembra risiedere non nei suoi programmi politici, ma nella sua capacità di rappresentare una rottura radicale con lo status quo.
Con il suo stile irriverente, senza filtri e con soprannomi bizzarri per i suoi avversari, Trump ha spesso dato l’impressione di incarnare un atteggiamento autoritario. Non tollera le critiche, attacca regolarmente la magistratura e pretende una sorta di immunità legale. Sul tema dell’immigrazione, ha usato toni particolarmente duri, promettendo un massiccio impiego delle forze di polizia e dei militari per deportare milioni di persone residenti negli Stati Uniti.
Anche sulle questioni economiche, Trump è lontano dal modello liberale e non rappresenta certo un “Javier Milei a stelle e strisce”. La sua amministrazione non è stata esattamente un baluardo contro l’inflazione e non ha mai mostrato vera intenzione di ridurre debito e spesa pubblica. È anche un noto oppositore del libero scambio, principio fondamentale del mercato libero, avendo rispolverato le guerre commerciali con proposte che sembravano superate da decenni.
È vero, la sua sfidante democratica era, sotto molti aspetti, persino peggiore di lui. Tuttavia, l’entusiasmo che molti hanno mostrato per Trump non sembra derivare semplicemente dalla classica scelta del “male minore,” ma da una vera e propria convinzione nei confronti dell’ex presidente. Un coinvolgimento che non si era mai visto con altri candidati o figure come, ad esempio, Mitt Romney prima di lui.
La principale qualità di Trump è quella di essere un candidato diametralmente oppositore dello status quo ed ha vinto mettendosi contro tutto l’establishment di Washington. Dai democratici ai repubblicani storici, come dimostrato dall’ostracismo nei suoi confronti dei Bush o dei Cheney. Questo ha provocato il rigetto della classe politica che, durante e dopo il suo primo mandato, ha fatto di tutto per tenerlo lontano dal potere. La tattica scelta dall’establishment è stata quella di etichettare Trump come razzista, misogino, un fascista in erba, i cui sostenitori lo appoggiano semplicemente perché odiano chi non è bianco, eterosessuale e maschio. Così come la commistione tra politica e magistratura (che in Italia conosciamo bene) ha tentato di squalificarlo ulteriormente perseguendolo legalmente.
Donald Trump ha vinto da solo, contro un esercito formato da quasi ogni istituzione, ogni azienda, ogni leva di potere e opinione pubblica, da Big Tech a Hollywood fino ai media. Ha vinto perché è riuscito a trasformare il Partito Repubblicano dominato dall’élite in un movimento populista che finalmente parla direttamente al popolo americano. Al contrario, i Democratici sono rimasti fedeli al copione, appellandosi ai donatori, alle aziende, all’élite intellettuale e finanziaria e alla burocrazia dominante.
Murray Rothbard, economista pietra miliare del pensiero libertario, aveva già intuito la magnifica portata di questo tipo di approccio, nel suo saggio “A strategy for the right”. Secondo Rothbard, solo un leader populista sarebbe capace di unire i conservatori economici (liberisti, diremmo noi in Italia) con i conservatori sociali con l’obiettivo unitario di ridurre il potere statale, demistificandolo e delegittimandolo.
Per fare ciò, Rothbard riconosceva la necessità di un leader dinamico e carismatico capace di ispirare le masse lasciate indietro e sfruttate (i “deplorables” evocati da Hillary Clinton). Per farlo però è necessario lasciare da parte le vecchie logiche ed evitare l’intermediazione delle élite mediatiche e culturali, dei media tradizionali ed opinion leader di ogni sorta, ormai catturati dall’establishment e della retorica di sinistra. Trump lo ha fatto, trattando le università e l’intera élite intellettuale di sinistra con completo disprezzo e non scendendo mai a compromessi con i media tradizionali. Il suo messaggio è stato indirizzato direttamente alle masse venendo disintermediato da X del suo amico Elon Musk, grazie alle interviste nei podcast di Joe Rogan o di Tucker.
Insomma, in breve, Rothbard sosteneva di scambiare il vestito elegante necessario per entrare nei circoli bene di Washington con il grembiule di McDonald’s e la casacca da spazzino. Trump ha ben interpretato tutto ciò. Al contrario di un Mitt Romney che ci teneva a “piacere alle persone che piacciono” e ad essere invitato alle feste importanti tenute a Dc.
In definitiva, Donald Trump ha rappresentato un punto di rottura nel panorama politico mondiale, capace di raccogliere attorno a sé una coalizione eterogenea di sostenitori. Anche se non può essere definito un presidente liberale o libertario nel senso stretto del termine, il suo impatto sulla politica americana e globale è stato innegabile. La sua capacità di sferrare un attacco diretto all’establishment e di mobilitare masse di cittadini che si sentivano escluse dal discorso politico tradizionale lo ha trasformato in una figura dirompente.
Insomma, consapevolmente o meno, molti liberali hanno visto in Trump quel “messia”, profetizzato da Rothbard, in grado di sfidare il potere statale e delegittimare le élite sarebbe stato cruciale per ridurre l'influenza del governo sulla vita degli individui. Che il suo approccio possa rappresentare una nuova via per i conservatori, o che si tratti di un fenomeno passeggero, solo il tempo ce lo dirà. Tuttavia, ciò che è certo è che Trump ha scosso le fondamenta della politica americana, lasciando una traccia che difficilmente potrà essere ignorata in futuro.
Aggiornato il 13 novembre 2024 alle ore 12:48