Chi ha paura di Trump?

Woke all’assalto

Insomma, dentro e fuori degli Stati Uniti d’America, chi ha paura di The Donald? Non siamo forse alla ripetizione fallimentare di chi avrebbe voluto esorcizzare il brutto anatroccolo politico, figlio dell’inferno, così come lo hanno dipinto prima e dopo la sua vittoria nel 2016 i guru progressisti del wokism internazionale? Ma se il tetto di cristallo ha retto all’urto di Hillary Clinton ieri e di Kamala Harris oggi, è davvero colpa sua, della brutalità del macho misogino e politicamente scorretto, o del fatto che i democrats americani non hanno capito nulla dei problemi veri del loro popolo? Ma di chi è la responsabilità, se non di coloro che non hanno visto tornare Trump? Perché parte della Silicon Valley ha investito miliardi per la campagna di Kamala, sfidando l’ovvio di quel mare di miliardi di post sui social network (come ha sottolineato lo stesso Elon Musk) che, da un anno a questa parte, hanno restituito l’esatta fotografia di che cosa pensa la gens americana del progressismo woke e dell’elitarismo connesso? Che cosa hanno a che vedere con il popolo americano impoverito le star di Hollywood e dei media, che non badano a soldi nell’acquisto di piaceri terreni, mentre gli altri, gli strain e under dog, non hanno più soldi per fare la spesa? Ora, come nel 2016, tutti tremano all’idea di che cosa possa fare l’imprevedibile The Donald avendo oggi i “poteri assoluti”, dato che può vantare, nell’ordine: la vittoria nel voto popolare, la maggioranza al Senato e, probabilmente, al Congresso. Oltre a una Corte Suprema conservatrice, poco incline alle sirene woke.

Oggi come ieri vale la pena di tranquillizzare gli ansiosi: se succederà davvero qualcosa, sarà uno shock benefico per molte categorie di soggetti politici che si sono fin troppo adagiati sulle risorse dello Zio Sam, per finanziare i loro welfare generosi e delegare la propria difesa a carico del bilancio Usa. Così, dato per scontato che il tycoon giocherà le divisioni tra europei, privilegiando gli accordi bilaterali, soprattutto per dazi e scambi commerciali, l’Europa avrebbe un enorme bisogno di ricompattarsi almeno su due fronti: la difesa comune e il rilancio economico-produttivo in area Ue. E deve farlo con soldi “propri”, sacrificando gli egoismi nazionali. Praticamente impossibile, visto la risorgenza di partiti e movimenti sovranisti.

Paradossalmente, potrebbe essere proprio Volodymyr Zelensky a trarre i maggiori vantaggi dall’elezione di Trump, e questo per due ordini di motivi. In primo luogo, è scontato che il futuro presidente americano accetterà l’invito di Vladimir Putin di convocare un tavolo comune sull’Ucraina e, a quel punto, Zelensky dovrà fare di tutto per esserci, preparandosi a fare dolorose concessioni territoriali. Il secondo aspetto riguarda la fornitura di armi, visto che Donald è fermamente intenzionato a ridurre drasticamente il contributo americano alla guerra in Ucraina. Per cui, non avendo l’Europa né la necessaria coesione, né la capacità produttiva per mantenere il ritmo forsennato delle forniture di proiettili di artiglieria, missili e blindati, Zelensky sarà costretto a fare un discorso terra-terra al suo popolo stremato, che non ha più uomini da mandare al fronte: “Non abbiamo più né armi, né soldati per resistere. Perciò, dobbiamo trovare un accordo per la tregua, anche facendo grandi sacrifici”.

Il problema, a quel punto, sarà tutto di Trump, dato che nessun presidente americano potrà permettersi di riconoscere la vittoria dell’invasore, trovando soluzioni originali per la sua soluzione, come corridoi internazionali, zone franche e status speciale per alcune ex città portuali ucraine, in modo da garantire alla futura Ucraina l’accesso al Mar Nero e la sicurezza dei suoi nuovi confini. E questo significa dover individuare composizione ed entità dei contingenti militari che dovranno costituire forze di interposizione a tempo, per evitare sconfinamenti e il rischio di ripresa del conflitto. Per quanto riguarda il contrasto all’immigrazione illegale alla frontiera sud degli Usa, chi ha tutto da temere dalla rielezione di Trump è proprio il nuovo presidente del Messico, Claudia Sheinbaum, dato che con lui si avvererà l’evento più temuto: l’imposizione di una tariffa del 25 per cento su ogni bene messicano esportato negli Usa, qualora continui il flusso di migranti irregolari dalle frontiere comuni. E tenuto conto del disavanzo commerciale degli Stati Uniti nei confronti del Messico, pari a 135 miliardi di dollari, l’incubo di una recessione per Sheinbaum si fa molto più concreto, anche perché in ogni caso dovrà mettere molte più risorse per l’impiego dell’esercito nel pattugliamento di più di 3.000 chilometri di confine con gli Usa, per cercare di arrestare l’immigrazione irregolare.

Trump, inoltre, farà pressione almeno in altre due direzioni: costringere il Messico ad accettare lo status di Paese sicuro, che lo obbligherebbe ad accogliere i milioni di migranti che oggi vogliono entrare negli Stati Uniti, riprendendosi per di più altri milioni di connazionali che in questi anni hanno varcato illegalmente il confine con l’America. E dato che il Paese del Centroamerica è l’hub mondiale dei cartelli della droga che inondano di Fentanyl gli Usa (più di 75mila decessi per overdose nel solo 2023), Trump ha minacciato il governo messicano di un intervento diretto delle forze speciali americane, per smantellare la produzione di oppioidi di sintesi da parte del crimine organizzato. In questo quadro, Trump potrebbe equiparare le gang messicane a organizzazioni terroristiche, per garantire al suo governo ampi margini di intervento anche all’esterno. E l’Italia, come verrà trattata dalla nuova Amministrazione americana? Come un alleato fidato, senza alcun dubbio.

Aggiornato il 12 novembre 2024 alle ore 09:51