La crisi del Congo inizia nel 1960, all’indomani della proclamazione dell’indipendenza dal Belgio, perdura per cinque anni caratterizzati da guerra civile tra le varie etnie congolesi e velleità di secessioni e fu, di fatto, indiretto terreno di scontro tra Occidente e Unione Sovietica.
Anni di guerriglia e caos che, provocarono tra 100 e 200mila morti fino al Colpo di Stato che, nel 1965. portò al potere Mobutu, e qui vogliamo e dobbiamo ricordare i 13 aviatori italiani uccisi e martoriati, nel 1961, a Kindu, dall’esercito congolese.
Oggi, dopo 64 anni dall’indipendenza, la Repubblica democratica del Congo è un Paese allo stremo, al 187° posto dell’Indice dello sviluppo umano. Era il 1996 quando a Bukavu fu ucciso l’arcivescovo Christophe Munzihirwa che tanto si era speso per denunciare a livello internazionale le condizioni del Congo, dei rifugiati burundesi e ruandesi, affinché la comunità internazionale intervenisse a livello diplomatico e umanitario; fondamentalmente inascoltato, proseguì, fino alla fine, nella denuncia degli sconfinamenti del Ruanda in territorio congolese.
Nel frattempo erano avvenuti, causa guerre civili, nel 1993 il genocidio nel Burundi, 300mila morti e nel 1994 800mila nel Ruanda che, nel 1996. supportato anche dall’Uganda, invade il Congo, provocando la caduta di Mobutu e la proclamazione del presidente Kabila, rimasto in carica nei successivi cinque anni caratterizzati da corruzione, dispotismo e clientelismo.
Dal ’96 al ’97 e dal ’98 al 2002 cinque milioni di esseri umani hanno perso la vita in quella che è stata definita “la prima guerra mondiale africana”, a cui parteciparono una decina di Paesi tra cui Angola, Namibia, Ciad, Uganda, Ruanda, Zimbabwe e Burundi. Con gli accordi di Pretoria 2002, e l’arretramento degli eserciti ruandesi e ugandesi, ebbe fine anche la seconda fase della guerra congolese, ripresa immediatamente nel 2003, malgrado il potenziamento del contingente Onu portato a 8700 militari con un budget di un miliardo di dollari. In particolare nella provincia del Kivu dove, ancora una volta il Ruanda dell’eterno presidente Paul Kagame,al potere da 24 anni, etra i maggiori responsabili del disastro congolese negli ultimi decenni, fomentò il contrasto tra Hutu e Tutsi.
Dal 2004 al 2009 truppe filo ruandesi spadroneggiarono nell’intera regione, conflitto del Kivu, massacrando la popolazione civile. Nel 2012, ancora il Ruanda, aiutato dal Kenia stimolò la nascita del movimento di ribelli M23, composto anche da Tutsi congolesi, ugandesi e burundesi nonché dalla presenza di 4mila soldati ruandesi. Non attivo per qualche anno, dal 2021, M23 è ritornato a combattere in Congo, nel nord e sud del Kivu.
Sul decennale pericoloso intreccio, tra i confinanti Congo e Ruanda, occorre notare che il secondo, pur non possedendo giacimenti di Coltan, con più di 2000 tonnellate annue ne è il primo esportatore mondiale, si comprendono così, ampiamente, origini e sviluppi di tensioni, guerre e genocidi in quel superbo angolo del Pianeta.
Nel 2019 Felix Tshisekedi diventa presidente della Repubblica democratica del Congo ma le condizioni economiche sociali, a tutt’oggi, restano immutate, il 2023 ha visto 7 milioni di profughi lasciare le proprie residenze per altre zone dello stesso Paese.
La parte orientale è preda di un centinaio di bande armate, senza regole né principi, se non quelle di poter partecipare allo sfruttamento minerario. Negli ultimi anni, poi, ha fatto la sua comparsa un gruppo islamista d’origine ugandese l’Adf, affiliato a Daesh, attivo con incursioni armate nel nord Kivu.
Completata, con qualche difficoltà, considerato la molteplicità degli avvenimenti e degli attori in campo, una sintetica cronistoria degli avvenimenti, con qualche venatura retorica, ci interroghiamo su come il mondo abbia potuto silenziosamente e ordinatamente assistere, in 64 anni, al genocidio di abbondanti 10 milioni di esseri umani.
Lo faremo con ordinata compostezza, ragionando, ma senza mezze parole né retro pensieri, del resto, senza colpe in questo scenario non se ne intravvedono molti.
Intanto, vogliamo evidenziare il ruolo del Cattolicesimo e dei suoi Pastori nella grande regione dei laghi, a partire dall’indipendenza congolese. Decine i martiri che erano stati vicino agli indifesi, agli umili senza mire sulle ricchezze minerarie. Raccontarono al mondo, inutilmente, l’inferno di quell’angolo africano, cercando di far intravvedere, inascoltati, a quei poteri che un altro mondo era possibile. Un riconoscimento, il nostro, all’episcopato congolese, noi, non accodati alla retorica mondialista della Chiesa di Roma, ma sedotti da chi ha interpretato la religiosità anche come servizio all’umano. Umani con un’aspettativa di vita di 46 anni, con 66 decessi ogni 1000 nascite, con un analfabetismo del 30 per cento, con scarsità di cibo e acqua potabile, soggetti ad epidemie, per il virus Ebola nel 2019 si verificarono 2500 casi e circa 2000 decessi.
Oltre questo riconoscimento, forse l’unico in questo contesto, è opportuno evidenziare che, paradossalmente, se queste terre non avessero avuto tanta ricchezza mineraria non avrebbero sofferto al di là del soffribile. Rame, oro, argento, diamanti, le antiche ricchezze, manganese, uranio, cobalto, Terre rare e Coltan, quelle del futuro, in particolare l’ultima, di cui il Congo ne possiede l’80 per cento, indispensabile per cellullari, computer, industria aeronautica ed altro.
Un Paese perseguitato da una maledizione dell’abbondanza in una pluralità di etnie e gruppi tribali che favorisce dinamiche interne a quell’area da decenni sfociate in sanguinosi conflitti.
Condizione che non deve, nell’analisi complessiva della lunga tragedia del Centrafrica, indurci ad addebitare esclusive responsabilità al fattore etnico. Nel Congo, a parte le colpe della non felice gestione coloniale del Belgio, non poca opaca influenza hanno avuto la Francia con i suoi legami ruandesi, gli Stati Uniti, gran partner di Kinshasa, oggi in competizione con Cina e Russia, con quest’ultima la Repubblica Democratica del Congo, tra il 2017 e 2018, ha incrementato lo scambio commerciale da 18,5 a 33,5 milioni di dollari.
La Cina, l’ultimo gradito invitato, negli ultimi tre decenni del secolo scorso ha avviato una possente azione diplomatica che, con una sorta di colonialismo dal volto buono e l’animo gentile, ha intessuto rapporti economici-commerciali, quindi politici, con 45 Paesi africani su 54. Il suo interscambio di 200 miliardi vale il quintuplo di quello americano e, naturalmente, grande attenzione ha riservato al Congo, in virtù dello sfruttamento delle immense risorse minerarie.
Sono nate così numerose Joint Venture Sino-Congolesi che vanno dallo sfruttamento minerario alla ricerca petrolifera con la compagnia Wing Wah. Al Congo, di fatto, hanno regalato qualche ospedale un grande stadio ed altre infrastrutture ma il Paese ha dovuto contrarre debiti affinché la cooperazione industriale potesse reggere un suo equilibrio e questo, malgrado gli introiti da risorse minerarie, ha contribuito ad aggravare la situazione finanziaria congolese.
Siamo convinti che l’economista britannico Angus Deaton, premio Nobel 2015, coglie nel segno ragionando dell’“illusione degli aiuti allo sviluppo che nuocciono alla coesione sociale e alla stessa democrazia”. La riprova l’abbiamo avuta soffermandoci sulle condizioni di Paesi reduci da inconsistenti programmi di sviluppo.
Non si tratta di progettare fantasiose cooperazioni del tipo progetto strategico Mattei; un documento sul Congo, di sociologi politicamente corretti, attesta la possibilità di trasformare milioni di ettari agricoli in coltivazioni per biocarburanti, sicuramente accolte come manna da quelle popolazioni.
L’ora è tarda e il tempo è sfuggito per operare in un non compreso quadro geopolitico. La Cina e in misura minore Russia ed India sono di qualche decennio avanti con i loro concreti progetti strategici.
E l’Europa? Di fatto assente. Nel giugno 2003 avviò nel nord est del Congo l’operazione militare Artemis, 2000 militari in massima parte francesi, che si adoperò per scongiurare una crisi umanitaria. Alla fine della campagna, in settembre, subentrò la missione Monuc dell’Onu. Nel 2009 l’Ue decise uno stanziamento per il Congo di 45 miliardi, rifiutando, però, l’invito del Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, ad inviare truppe in collegamento con la Monuc.
Risibili le motivazioni addotte dal ministro degli esteri italiano: “Prima di inviare truppe occorre capire le difficoltà della missione Onu e la necessità di avere un mandato del Consiglio di sicurezza”.
In compenso l’Unione europea avviò due missioni con il compito di assistenza nel settore della sicurezza, dei diritti umani, della buona gestione della cosa pubblica, della trasparenza, dell’osservanza dello stato di diritto.
E ancora, nel 2014 tre progetti degli europeisti per la salute, per la creazione di opportunità di lavoro, per l’emancipazione delle donne e della loro inclusione nel mondo economico.
Qualcuno a Bruxelles o in qualche Cancelleria d’Europa ha chiesto resoconti di questi impegni, di questi proclami pseudo sociologici, adatti ad un gaudente Occidente? Certamente no, per un bacino di popolazione vicino ai 200 milioni che da un sessantennio conosce guerre, genocidi, povertà, malattie, stupri. Inutile continuare. Ed allora comprendiamo anche evanescenza e allo stesso tempo supponenza di un progetto europeista avviato su un fallimentare cammino che presume, tra l’altro, di mostrarsi ai ciechi e parlare ai sordi.
E l’Onu? Diciamolo subito: un percorso e una latitanza indecente, la sua missione e i suoi interventi per il mantenimento della pace rappresentano un fallimento in tutta la regione dei Grandi Laghi.
Senza disconoscere alcuni significativi risultati, come l’intervento risolutivo della secessione del Katanga e quello della missione più corposa, in termini di risorse, la Monuc 1999-2010 che portò nel 2001 al ritiro delle truppe ruandesi e ugandesi. Nel 2011, con la trasformazione dell’acronimo in Monusco (Missione Nazioni Unite Stabilizzazione Congo), si raggiunge il massimo impiego di truppe, 20mila militari con un costo di 1,45 miliardi di dollari per il 2013-14, ma la sicurezza nel Paese è precipitata ancor più. Con l’aggravante che il governo congolese ha chiesto nel 2023 il ritiro della missione.
Ci sono state anche manifestazioni contro la Monusco, e non solo in Congo, a cui si addebitano centinaia di abusi e sfruttamento sessuale, nel contesto di 2 milioni di donne sessualmente violentate nello scacchiere.
“Se ne vadano le forze di pace” accusate di passività e inerzia di fronte a tanti massacri commessi da ribelli, e al non rispetto dei diritti umani.
Ma nel Kivu la tensione con il Ruanda, con l’M23 e con decine di formazioni di ribelli è risalita negli ultimi due anni e la seconda fase del ritiro Onu, per ora è sospesa.
Insomma, la peggiore crisi umanitaria, di coesistenza tra confinanti e non, con il tramonto del sogno panafricano non inducono a pensieri e ragionamenti confortevoli.
L’Occidente in sei decenni ha sostanziato l’implementazione delle sue criticità, ha dimostrato di non essere in grado di comprendere come affrontare quell’angosciante buco nero, del tutto indifferente alla gran parte del Pianeta. L’Onu, disinvoltamente, percorre il viale del suo tramonto, l’Ue, presa da altro, non avverte il suo non essere nel prossimo futuro.
Considerazioni del cardinale Robert Sarah, nella prospettiva di un mondo diverso, rivolte, lo scorso aprile, agli studenti della Scuola teologica in Camerun: “C’è una sfida capitale per l’Africa di domani. Vorrei invitarvi non solo a cercare la verità ma ad amarla appassionatamente! Perché l’amore per la verità era stato sostituito dal dubbio. E dopo il dubbio è venuto il regno della violenza e della volontà di potere”.
“Senza essere orientata alla verità, senza un atteggiamento di umile e coraggiosa ricerca della verità, ogni cultura si disintegra” - Benedetto XVI.
“Ho pensato di incitare il mondo accademico africano a non lasciarsi contaminare dalle malattie della mente che l’Occidente vorrebbe imporgli”. È l’Occidente ad avere paura della ricerca della verità.
I monaci cercando Dio hanno sviluppato l’architettura delle cattedrali come anche le migliori opere musicali o poetiche. Date vita a una ‘nuova cultura africana’ che fecondi l’arte, le lettere, la filosofia e l’architettura. Mirando anche a un nuovo modo di affrontare l’economia e la scienza, rimettendole al servizio dell’uomo e della verità, rispettate i vecchi, inutili alla redditività economica. […], facendo risaltare i fondamenti di ogni civiltà autentica e il rispetto degli antichi”.
Aria nuova e nello stesso tempo antica, di un’antichità vera e solenne che ci riporta alla centralità della persona alle sue libertà e quindi al nostro liberalismo che, per chi lo comprende, interiorizzandolo, ci dice che lavorare sul quel buco nero, ignorato dal Pianeta, potrebbe essere anche nostro impegno.
(*) Direttore Società Libera
Aggiornato il 01 novembre 2024 alle ore 09:55