Sinwar e altre storie: imbalsamare il lupo

Anche i lupi come Yahya Sinwar finiscono prima o poi in pellicceria (israeliana, con ogni probabilità). Del resto, quella sua radice Sin non significa forse peccato in inglese e war guerra? Ma, il dramma peccaminoso vero e proprio di Sinwar è di aver trascinato due milioni di civili palestinesi in questa folle avventura della guerra, puntando tutte le sue carte sia sulla overreaction di Benjamin Netanyahu (andata oltre ogni sua rosea aspettativa), sia sul contestuale risveglio arabo per la liberazione della Palestina (una riedizione del 1973, in pratica) e sull’intervento militare dell’Hezbollah libanese, per aggredire Israele anche sul fianco Nord. Nessuna delle due ultime aspettative si è verificata, eccettuata la solita pioggia di missili dal confine libanese controllato da Hezbollah, come del resto avviene regolarmente da anni. E, invece, il fronte si è aperto al contrario, con i miliziani sciiti libanesi sulla difensiva e Israele all’attacco della leadership dei fondamentalisti, dei loro depositi di armi e missili, mimetizzati nelle case di civile abitazione e in tunnel sotterranei (Hamas docet).

Ma una cosa Sinwar l’ha ottenuta con la strage del 7 ottobre 2023 e la distruzione successiva di Gaza: ovvero, l’intervento diretto dell’Iran con una salva di missili balistici contro il territorio israeliano (cosa che avrebbe causato decine di migliaia di perdite civili senza i tre livelli di scudo antimissile), in ritorsione alle notevoli perdite causate da Israele ai suoi proxy, Hamas e Hezbollah. Il problema dei troppo furbi è, infatti, che soffrono gravemente del complesso di Narciso, per cui la loro megalomania non ha limiti né confini nell’umana prudenza.

Così Sinwar ha perseguito con folle lucidità l’obiettivo di una guerra a tutto campo che nei suoi progetti doveva servire a cambiare il volto del Medio Oriente, e ci è riuscito alla rovescia, facendo danni incommensurabili alla sua gente e al suo grande protettore di Teheran. Gaza è in rovina e Hamas è allo sbando, anche se il sedicente ministero della sanità gazawi insiste a dare un unico, inverificabile numero di vittime, senza dire quanti suoi miliziani siano caduti in battaglia o periti sotto i bombardamenti dell’aviazione israeliana. Per di più, Hezbollah ha perduto il suo leader storico e, in stretta sequenza, anche qualcuno in linea diretta di successione. Persino la maggioranza dei libanesi sciiti (come la maggior parte degli iraniani) è contraria a mobilitare le proprie milizie e a svuotare gli arsenali missilistici (vera garanzia di sopravvivenza di Hezbollah, in caso di attacco da parte di Israele) per andare in soccorso della guerriglia di Hamas. Anche l’Iran appare oggi molto più debole e vulnerabile, dato che i suoi leader non perdono occasione nell’assicurare il resto del mondo che non desiderano un conflitto aperto con Israele e, meno che mai, con il grande satana statunitense suo indefettibile alleato. Per di più, almeno finora, nessuno dei regimi arabi ha preso nettamente posizione né in difesa di Hamas, né tantomeno dei miliziani sciiti di Hezbollah. Questo perché le loro opinioni pubbliche sono uscite profondamente demoralizzate dal fallimento delle Primavere arabe del 2011, per cui non hanno nessuna intenzione di scendere in piazza a sostenere l’arcinemico storico iraniano.

Del resto, il solo Egitto ha perso entrate per 6 miliardi di euro, a causa dell’attività degli Houthi che ostacola il traffico nel Canale di Suez. E, infine, il prezzo del petrolio è sceso di 10 dollari al barile, rispetto alle quotazioni del 6 ottobre di un anno fa. Era questo che voleva ottenere Sinwar con il massacro del 7 Ottobre? Di certo, la grande delusione del guerrafondaio è stata proprio la defezione soft di Hezbollah, che avrebbe potuto inviare i suoi reparti di élite contro il comune nemico sionista, e saturare Iron Dome e gli altri sistemi antimissile israeliani con una nutrita salva di missili a corto raggio, vista la breve distanza che separa il Sud del Libano dal confine israeliano. A Sinwar, in pratica, è “mancata l’analisi” e, quindi, non è stato in grado di discernere tra la propaganda politica del vantato “Asse della resistenza” (Iran e proxy) e la realtà militare vera e propria, trattandosi di un patchwork di milizie (Hamas, Hezbollah e Houthi) profondamente diverse tra di loro, e che per di più operano all’interno di Stati falliti, come il Libano, lo Yemen e la Palestina.

L’anno di guerra appena trascorso ha dimostrato come questi vantati alleati non condividano gli stessi interessi strategici nell’area, e abbiano capacità molto limitate di condurre una guerra sulle lunghe distanze, cosa che Israele, con la sua netta superiorità aerea, ha dimostrato di non temere, bombardando siti strategici e infrastrutture degli Houthi collocati a migliaia di chilometri di distanza. Ed è proprio questo fattore di debolezza ad aver spiazzato la retorica antisionista di Teheran, che faceva fin troppo affidamento sulla capacità dei suoi proxy di combattere una guerra permanente a bassa intensità al suo posto, restando fuori dal confronto diretto.

Ora, per aver attaccato direttamente Israele, lanciando missili balistici sulle sue città, l’Iran deve attendersi una risposta israeliana che la sua aviazione malandata (l’elicottero dell’ex presidente iraniano sarebbe caduto perché in deplorevole stato di manutenzione per mancanza di pezzi di ricambio) non potrà di certo contrastare. E non basteranno di certo le batterie di missili antiaerei per impedire all’Idf di colpire i siti produttivi iraniani, dove si fabbricano droni e missili a lungo raggio. Organi di stampa, vicini alle posizioni del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, hanno suggerito che il regime potrebbe rivalersi sugli Stati del Golfo nel caso Israele o gli Usa attaccassero i siti petroliferi iraniani, innescando una controreazione da parte degli alleati occidentali che metterebbe Teheran con le spalle al muro. Come si vede uno stallo senza fine e, per ora, senza veri vincitori.

Aggiornato il 15 ottobre 2024 alle ore 11:06