He Jinli: questo è il nome cinese che Kamala Harris ha scelto per se stessa. In alcune aree degli Stati Uniti, per legge, i nomi dei candidati devono essere tradotti in cinese in base alla loro fonetica, ma la Harris è una delle poche ad aver scelto spontaneamente e con criteri del tutto personali un nome cinese. È un tentativo di ammaliare l’elettorato asiatico-americano? Forse. All’indomani della decisione di Joe Biden di ritirarsi dalla candidatura presidenziale per le prossime elezioni di novembre e della nomina di Kamala Harris, attualmente vicepresidente, come sua sostituta, si sono moltiplicate le analisi e le prospettive offerte al grande pubblico.
Ciò che, tuttavia, sembra non essere molto evidenziato, in questi tempi di latente Guerra Fredda, è il significato che l’eventuale elezione di Kamala Harris come Presidente degli Stati Uniti potrebbe assumere per la potenza comunista cinese. La strategia del Partito Comunista Cinese mira, infatti, a giustificare il proprio modello autoritario non solo agli occhi dei suoi sudditi, ma anche di alcuni settori dell’opinione pubblica occidentale, presentandolo come un’alternativa più solida e orientata al bene comune rispetto alla socialdemocrazia. La leadership americana sotto Kamala Harris potrebbe quindi rappresentare un’ulteriore e ghiotta opportunità per la Cina, desiderosa di dipingere l’Occidente come un insieme di potenze deboli e decadenti. In un momento in cui le tensioni tra Occidente e Cina si fanno sempre più acute e complesse, Pechino potrebbe sfruttare la presidenza Harris come il simbolo di tutto ciò che considera sbagliato nelle democrazie occidentali e per rafforzare la propria narrativa antioccidentale. Questa strategia si è già dimostrata efficace, in realtà, dal momento che trova consenso persino tra settori della popolazione occidentale più conservatori e tradizionali, dove il modello autoritario comunista viene talvolta preferito a quello delle democrazie occidentali, percepito come instabile e precario.
La Cina ha sempre cercato di consolidare la propria posizione di potenza emergente, pronta a sfidare il primato globale degli Stati Uniti, dal punto di vista sia commerciale sia diplomatico e militare. Parte di questa strategia consiste nel sottolineare e amplificare ogni segno di debolezza politica, economica o morale dell’Occidente. La narrativa cinese si fonda sull’idea che le socialdemocrazie occidentali siano in grave declino, indebolite da anni di propaganda e politica libertina (da non chiamare con il termine “liberale”, che ha un significato ben più nobile e distinto). In molti modi, il pensiero woke, che ha pervaso le università e le istituzioni occidentali, rappresenta per Pechino (così come per altre potenze storicamente avverse all’Occidente, come quelle arabe) un punto di debolezza strategico. La Cina sa bene che la diffusione di ideologie radicali come il wokismo può creare divisioni interne molto profonde nelle nostre società, minando la coesione e la capacità di agire e reagire con determinazione, sia sullo scenario internazionale che nelle politiche interne.
Non è un caso che sia proprio la Cina, insieme ad altre potenze autoritarie notoriamente antiamericane, a finanziare in modo significativo la promozione di queste stesse idee nelle università occidentali, mentre contemporaneamente le censura nei propri istituti accademici. Questa politica di “esportazione del caos” serve a rafforzare la propria immagine interna come baluardo di stabilità e autorità morale di fronte al disordine percepito in Occidente. Un’immagine illusoria, certamente, tipica dei regimi autoritari di stampo socialista, che da fuori appaiono come fortezze inespugnabili e all’interno sono più fragili e instabili di quanto sembri. Eppure, nel contesto delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, Kamala Harris potrebbe facilmente diventare il simbolo di tutto ciò che Pechino considera sbagliato nelle democrazie occidentali.
Il punto di forza di tutta questa narrativa cinese è presto detto: il problema è reale. Le democrazie occidentali sono davvero decadenti e deboli. Ciò che è falso e gravemente pericoloso è, ovviamente, la soluzione che si vuole proporre (o imporre): la giustificazione e l’esportazione di un determinato modello autoritario di politica nel mondo. L’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, è ormai diviso e indebolito dalle proprie incoerenze interne. L’ideologia woke, che enfatizza identità di gruppo inesistenti e politiche identitarie prive di sostanza, a scapito di un discorso pubblico unitario e coeso, frammenta le società e disorienta le teste. Il pericolo per l’Occidente è quindi duplice: da un lato, la continua divisione interna può ridurre la capacità di prendere consapevolezza del momento presente e reagire con decisione e unità nelle questioni internazionali; dall’altro, offre a regimi autoritari come la Cina un vantaggio competitivo.
Se Kamala Harris dovesse essere eletta, la sua presidenza potrebbe rappresentare un’ennesima “sinizzazione” della politica americana. Non nel senso di un’adozione diretta delle pratiche cinesi (anche se l’esperienza Covid-19 non ci fa ben sperare neanche in tal senso), ma come esempio di una leadership che Pechino potrebbe facilmente utilizzare per mettere in luce le debolezze e la crisi della socialdemocrazia occidentale. In questo modo, Harris potrebbe, almeno involontariamente, rafforzare la posizione della Cina come leader di un nuovo ordine mondiale che si oppone ai valori tradizionali occidentali e alla libertà.
Aggiornato il 13 settembre 2024 alle ore 13:22