Nell’ottica europea della quale, ci piaccia o no, siamo partecipi ciò che accade al nostro vicino deve preoccuparci, eccome. Soprattutto se il vicino si chiama Francia. Il paravento delle Olimpiadi ha nascosto solo per qualche settimana la realtà di una nazione attraversata da una profonda crisi economica e sociale.
Il presidente Emmanuel Macron ha sbagliato su tutta la linea e adesso non solo il suo Paese ma l’intera eurozona rischia di pagarne il conto. Il “piccolo Napoleone” ha indetto elezioni politiche anticipate al solo scopo di fermare l’avanzata della destra di Marine Le Pen in vista del voto presidenziale del 2027. Macron ha giocato sporco, soprattutto nel passaggio del secondo turno elettorale quando, grazie alle desistenze concordate con il Nouveau Front Populaire (raggruppamento che mette insieme quattro aggregati partitici in rappresentanza di tutte le declinazioni della sinistra), ha impedito al Rassemblement National di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi all’Assemblea nazionale. Il risvolto della medaglia di tale brillante operazione politica è stato regalare alla sinistra un successo falsato.
L’inetto Macron si è bruscamente risvegliato dal sonno della ragione il giorno dopo il voto, accorgendosi di aver causato un danno ben più grande di quello che avrebbe voluto evitare arrestando l’avanzata della destra. Consegnare la nazione a estremisti di sinistra del calibro di Jean-Luc Mélenchon? Una follia, che nessuno nella Francia pensante, e neanche a Bruxelles, avrebbe capito, tanto più che il voto al primo turno ha raccontato un’opposta verità: le destre hanno conquistato la maggioranza degli elettori (14 milioni contro i meno di 9 milioni delle sinistre riunite). Occorreva, perciò, optare per un personaggio non sgradito alla maggioranza dei francesi. Ecco perché, dalle urne chiuse in giugno, si è dovuto attendere ieri l’altro per avere dall’Eliseo il nome del nuovo primo ministro. La scelta è caduta su Michel Barnier, politico di lungo corso, con buona esperienza nelle relazioni internazionali e nel funzionamento dell’Unione europea (dal 30 giugno 2016 al 31 marzo 2021 è stato Capo negoziatore europeo per l’uscita del Regno Unito dalla Ue). Barnier è espressione della destra conservatrice con solide radici nel gaullismo. Detestato dalla sinistra che vede in lui un reazionario, è parimenti guardato con sospetto dagli ambienti ultraliberisti del capitalismo finanziario che non hanno mai digerito la sua decisione, assunta da commissario europeo, di fissare un tetto ai bonus dei banchieri. Michel Barnier, quale primo ministro incaricato, dovrà affrontare la prova del fuoco della fiducia parlamentare (per la maggioranza assoluta 289 voti). Avrà l’opposizione feroce della sinistra (178 voti) che si sente defraudata del suo presunto diritto a governare e che è già scesa in piazza contro di lui. Numeri alla mano, i voti che gli verranno dai parlamentari macroniani di Ensemble (150) a dai Les Republicains (39) non gli basteranno. Occorrerà uno sforzo di partecipazione del Rassemblement National della Le Pen (142) la quale, pur non essendo stata coinvolta nella gestazione, è chiamata a collaborare in qualche misura al parto del Governo Barnier. La palla è ora nelle mani della dama di ferro che ha due sole possibilità di lettura della situazione: interpretare la mossa Barnier come una subdola trappola ideata da Macron per incastrarla, o come un’opportunità che la storia le offre di mostrare di avere il phisique du rôle della statista di rango. A lei la scelta.
Dire che la Francia non goda di buona salute finanziaria è un eufemismo. Il quadro è complicatissimo. Vi è l’innalzamento del debito pubblico che naviga intorno al 110 per cento del rapporto con il Prodotto interno lordo, con l’aggravante che per il 50,5 per cento (fonte Eurostat 2023) è contratto con investitori esteri e con una previsione di aumento significativo entro il 2027. Il rapporto deficit/Pil ha raggiunto nel 2023 il 5,5 per cento. Dopo che gli ultimi due trimestri del 2023 si sono chiusi in stagnazione, il 2024 ha confermato un forte peggioramento delle prospettive congiunturali a causa della contrazione degli acquisti segnalata sia nell’industria sia nei servizi (fonte: Bloomberg, Banca Migros). Ancora più gravi sono i problemi strutturali che il Paese si trascina da anni, totalmente irrisolti. La condizione dell’apparato produttivo transalpino può essere appropriatamente descritta con le parole del giornalista finanziario tedesco Wolfgang Münchau e pubblicate dal Corriere della Sera lo scorso luglio: “Il modello economico del paese resta caratterizzato da un’agricoltura ferma al 1800, da un’industria ancorata al 1900, e da una visione mercantilistica risalente al 1700”. La macchina dello Stato è rallentata dalla presenza asfissiante di una burocrazia obsoleta, che richiederebbe un drastico ridimensionamento. Il rischio concreto è rappresentato dalla fuga degli investitori, a seguito di un ulteriore declassamento del merito di credito assegnato dalle agenzie di rating al debito sovrano francese. Il neo primo ministro dovrà darsi carico di ripulire il bilancio statale da tutte le fonti di spreco. Il che significherà che nessuna politica in deficit per la gestione corrente potrà essere consentita; che occorrerà ridimensionare la spesa per il welfare e attuare un programma di riforme draconiane allo scopo di fare uscire indenne il Paese dalla procedura d’infrazione aperta da Bruxelles per deficit eccessivo. Si tratterà di scontentare molti francesi e di conquistarsi una costosa impopolarità in termini di consensi elettorali. In compenso, la contropartita sarà di salvare la Francia dal default. È di tutta evidenza che la scelta più comoda sia stare all’opposizione, sollevati dalla responsabilità politica di mandare a gambe all’aria il Paese. Tuttavia, resterebbe intonsa la responsabilità morale e storica di aver contribuito con il proprio egoismo a danneggiare la nazione. Per tipi come Jean-Luc Mélenchon questo non sarà un problema ma un’opportunità. Quando il fattore ideologico ruota intorno all’obiettivo della distruzione del sistema, essere accusato di aver contribuito al suo declino non potrà che costituire una medaglia al merito appuntata al petto di un incallito comunista anti-occidentale. Ma si può dire lo stesso di Marine le Pen e dei suoi sodali che, statutariamente, pongono il sentimento di patria davanti a ogni cosa? Si tratta di una prova difficilissima per la coerenza dimostrata dalla destra nel sostenere l’opposizione intransigente ai Governi graditi a Bruxelles e all’alta finanza. Tuttavia, solo un grande statista possiede l’ampiezza visuale adeguata a comprendere quando fare un passo indietro per il bene supremo della nazione accantonando per il tempo necessario ogni interesse di bottega partitica.
A Marine Le Pen non verrà chiesto di entrare nel Governo Barnier. Sarà sufficiente che non ne ostacoli la nascita con un voto di sfiducia pregiudiziale. È, però, legittimo che la Le Pen pretenda da Barnier un programma di governo con un timing definito e che non sia incompatibile con le idee programmatiche del Rassemblement National, in particolare sul rilancio delle produzioni nazionali, sui temi securitari e della politica di controllo dell’immigrazione. Per stabilire la formula tecnica dell’inedita collaborazione gli amici francesi potrebbero attingere all’esperienza italiana dando vita al “Governo della non-sfiducia”. Il nostro Paese conobbe questa soluzione bizantina nel 1976, quando fu varato il terzo Governo Andreotti – un monocolore democristiano – grazie all’astensione del Partito Comunista Italiano. Nel 2013, l’allora presidente della Repubblica, il comunista Giorgio Napolitano, chiamato a commemorare il singolare episodio della vita politica italiana, commentò: “Ci volle coraggio per quella scelta di inedita larga intesa e solidarietà”. Il medesimo coraggio che oggi la storia chiede alla Le Pen. Molti dei suoi grideranno al tradimento dell’ideale. Ma a costoro vorremmo porre, con fraterna sincerità, una domanda: chi, nel 2027, potrà accusare la candidata della destra all’Eliseo di inaffidabilità o impresentabilità se, nel frattempo, la stessa avrà dato prova di coraggio nell’ora più buia, sacrificando la propria integrità politica e ideale al bene della nazione?
Aggiornato il 12 settembre 2024 alle ore 09:59