Tra turismo ed economia: il silenzio della Francia e il chiasso dell’Italia

Abbiamo organizzato un breve viaggio in Francia, dove vive parte della famiglia. A Ventimiglia ho rivisto una zia che, dopo aver guadagnato la sua pensione a Montecarlo, pochi anni fa se l’è vista tassare in Italia di quasi il 50 per cento (abita a Ventimiglia). Da tempo non andavo nel sud est francese, ero curioso. Sulla Francia dipendo ormai soprattutto dall’informazione politica o da quanto mi dicono gli amici francesi, ma mi sono reso conto comunque delle diversità che caratterizzano quella nazione rispetto alla nostra. Mentre dalla parte italiana del confine tutto sembra brullo e bruciato, soffocato da una catasta di caos, sporcizia e chiasso, in Costa Azzurra tutto è verde e curatissimo. Dal treno si vedono poche case, concentrate in piccole città, e un susseguirsi continuo di piccole insenature con rocce di granito a picco sul mare e minuscole anse di sabbia difficili da raggiungere, dove nuota poca gente apparentemente felice di stare lì.

Non ho notato gli “ombrelloni oni oni”, cantati benissimo da Giuni Russo in Un’estate al mare. Altro che il numero chiuso per accedere alle migliori spiagge della mia città, coi posti di blocco imposti dall’overtourism e dalla maleducazione. Una spiaggia dove i locali non vanno più da aprile a settembre e che io d’estate nemmeno voglio vedere, non sentendola più “mia”, ma utilizzata da chi non ne conosce nemmeno il nome. In Italia non c’è speranza: grazie a voli transoceanici al prezzo di una cena per quattro a Portofino, il 2024 ci regalerà 215 milioni di presenze turistiche (dati della Federazione italiana pubblici esercizi, di Confcommercio).

Nizza è una rivelazione. Ha 350mila abitanti, quindi non è molto più piccola di Genova (580mila), ma la differenza si vede già nella stazione, coperta da una galleria vetrata sotto la quale non c’è un atomo di spazzatura. La passerella che ci porta verso l’uscita ha scale mobili e ascensori funzionanti, e non c’è chiasso o confusione. Usciti dalla stazione ci dirigiamo verso la Promenade des Anglais. Abbiamo in famiglia un buon senso di orientamento, e camminiamo per una ventina di minuti in strade orlate da palazzi di fine Ottocento e inizio Novecento. La sorpresa è una soprattutto: non c’è traffico, c’è silenzio nelle strade, e nessuno urla. Chi parla non urla come se si rivolgesse a uno che sta a 200 metri di distanza. Parlano con un volume umano, non da pitecantropo. Quasi tutte le strade sono a senso unico, solcate a tratti da tram moderni e silenziosissimi. Non ci sono moto smarmittate cavalcate da ragazzini che urlano da un casco all’altro. Mi viene in mente una frase della mia amica Debra S., docente di antropologia all’Università Emory di Atlanta: “Italian motorinos... Terrible!”.

Anche la Promenade è tranquilla come un villaggio di nomadi sami nel pieno di un inverno glaciale. Peccato che in aria ci siano molti aerei. Ma in passeggiata coabitano poca gente e molta pulizia. Anche la spiaggia non è affollata come un negozio di New York nel giorno del Black Friday, ma ospita quasi le persone che si possono trovare in un piccolo alimentari in un paese esentato dal turismo alle 16, sotto il caldo sole di agosto. Ogni tanto ci sono dei maxi gazebo con una decina di panchine ben ombreggiate. La gente seduta legge un libro o sfrega la superficie del proprio smartphone per farne uscire il genio della lampada di Aladino pronto a dire: “Comandi, signora”.

Diretti verso la città vecchia raggiungiamo place Masséna (il generale napoleonico nato a Nizza come Giuseppe Garibaldi). I colori delle case sono simili a quelli di Genova e Livorno, ma la pavimentazione è perfetta e i lampioni sono sormontati da statue di marmo che – fossimo a Genova – sarebbero cadute. Penso alle piazze di Teheran, piene di impiccati appesi come le statue che sono di fronte a noi. Meno male che siamo nati in una democrazia, mi dico. Forse piazza Italia a Trieste è così bella come Place Masséna? Non computo quelle di Roma che sono di un’altra galassia: vuoi mettere piazza Navona o piazza del Popolo, piazza Farnese o Campo de’ Fiori o piazza del Pantheon. Peccato per le auto di Roma. Se Ottorino Respighi, avesse scritto l’opera “Le auto di Roma”, avrebbe scritto un’opera trap, indigeribile.

E le piazze di Parigi? Quella de la Concorde alla fine non è così bella. Qualcun’altra sì. Forse Times Square a New York, o lo Zocalo di Città del Messico. Guardate la foto della strada che porta nella centralissima place Masséna di Nizza: le rotaie dei tram, il silenzio della strada, i radi passanti. Viene da pensare ai versi di Baudelaire: Là dove tutto è ordine e bellezza, lusso calma e voluttà.

Una calma che in Francia è diffusa. Ricordo Strasburgo e la Parigi di tre decenni fa e penso che probabilmente solo Marsiglia e Parigi sono città incasinate, rumorose, “italianizzate”. Ripenso ai giovinastri adolescenti che nei week-end estivi di un paese vicino a casa nostra organizzavano feste notturne a squarciagola, con partite di pallone in strada (il calcio è come la pelle di colore giallo: indica un grave malessere). Da un’altra casa un altro ragazzo suonava la batteria – magari solo per dieci minuti – solo che lo ha fatto a mezzanotte, alle ventitré, e anche dopo l’una di notte. Vediamo un negozio d’arte: è come tutti i negozi di Nizza: ampio, pieno di prodotti e allestito come Dio comanda. Compro in una bella libreria un folio di Gallimard, Le dictionnaire des idées reçues di Gustave Flaubert, e lo pago tre euro.

Passiamo davanti a un liceo (le scuole sono quasi tutte vicino alla stazione, cosa buona e giusta). È un palazzo in perfetto ordine, grande come un ministero italiano, dove mi sarebbe piaciuto studiare, anche se il mio liceo classico non era male. Poi saliamo sulla collina della città vecchia. Anche lì la situazione è tranquilla e l’ordine delle cose è diverso dai vicoli di Genova o Napoli: negozi etnici, con ristoranti indiani, tunisini, spezierie à gogo. Macellerie con prezzi migliori di quelli italiani. Notiamo una signora che tiene in una borsa sottobraccio una finestrella retata dove è alloggiata una colomba color grigio argento. Abbiamo visto anche molti gatti, tenuti in zainetti aperti dai quali sporgono a curiosare in giro. Qui non si sentono quei cani che prendono a calci a forza di abbaiate incessanti le orecchie degli incolpevoli vicini. Qui i cani sono piccoli, silenziosi, bene educati, non come i cani italiani i quali, se sono piccoli, vanno tenuti in un numero di due, o tre, o persino quattro. Mentre, se sono grandi come vitelli, sono lo status symbol che una volta era riservato alle auto di lusso (anche oggi però le auto dei parvenu vanno forte: ho visto in Liguria passare il proprietario di due Lamborghini e una Ferrari: mi dicono che le porti fuori solo per consumare benzina e sfangare un po’ gloria, così come i comuni mortali portano a fare i bisogni i loro canidi di razza.

Il giorno dopo visitiamo Montecarlo, Principato di Monaco. La stazione è sotterranea come quella di Sanremo o di Bologna, ma ha una particolarità: si cammina sui tapis roulant, il mio mezzo di trasporto urbano preferito (avevo scritto un libro sul nuovo trasporto urbano che avrebbe sepolto la “autociviltà”, in cui pazzi dittatori cercavano di inventare mezzi di trasporto strani, come il tapis roulant su canali d’acqua, ma fallendo sempre). Inoltre, colpisce la fragranza di fiori d’arancio rilasciata da centinaia di diffusori sparsi lungo la stazione. Scendendo in giù su una lunga serie di ascensori che ci portano al mare, tocchiamo una strada che porta verso il porto. Passando incuranti davanti all’officina di un meccanico ci accorgiamo a stento che è un meccanico che tratta solo Ferrari: lì dentro ce ne sarà una trentina almeno. Più sotto un rivenditore di auto Lotus. In passeggiata una ragazza mi intervista in video sulle paraolimpiadi “Sarà una cosa su Instagram”, dice mia figlia. Giornalismo diffuso oppure national broadcast? Più in là un gruppo scultoreo che rappresenta un’auto di Formula 1 e il suo pilota. A Monaco le auto sono un must, mi dico. Però anche qui come a Nizza il traffico scorre lento e silenzioso.

In un’agenzia immobiliare leggiamo il prezzo di un appartamento posto al quarto e ultimo piano di un palazzo (immagino vista mare), con un terrazzo di 22 metri e interni di 173 metri quadrati. Il prezzo è di 11 milioni 660mila euro. Però trovo un negozio di numismatica e vecchie cartoline e compro una cartolina del monumento alla regina Vittoria di Nizza, datata 1912, pagandola un euro. La Rocca col palazzo del Principe è su una collina da dove si vede tutto il Principato. Qui, per la prima volta da quando siamo in Francia, si vede la folla dei turisti. Ciò ci costringe a rinunciare all’ingresso nel Museo oceanografico, così ci adeguiamo e scattiamo le classiche foto del panorama e dei cannoni di Monaco.

Che dire in definitiva della Francia in paragone all’Italia? Che noi potremmo avere uno stile di vita comparabile alla qualità francese, se riscoprissimo l’entroterra e l’Appennino di tutta la penisola (ma nelle zone non toccate dal turismo). Invece siamo come la Nigeria, con la città di Lagos che ormai va verso i 17 milioni di abitanti. Pratichiamo ancora – dopo la prima migrazione degli anni napoleonici – l’esodo verso le città e il mare e, siccome siamo incapaci di gestire l’overtourism, come invece permette l’organizzazione dei Comuni e dello Stato francesi, grazie anche a un territorio più dilatato, paghiamo cara la persistenza verso un modello sociale che non considera la tranquillità come il primo valore, insieme all’economia e ai servizi. Così i vigili urbani non multano più le moto, tutte smarmittate. Il modello di vita urbano, così poco urbano, si riverbera lungo la costa e nella provincia, col corredo di giovani che accoltellano, di cani che abbaiano tutta la notte, di folle gente che corrono dallo strizzacervelli e così via. Tutto ciò mentre in tivù e sui giornali si parla soprattutto delle baruffe tra i partiti. Changer la vie, scriveva Arthur Rimbaud. È quella l’unica rivoluzione, per tutto il resto ci sono le religioni.

Aggiornato il 05 settembre 2024 alle ore 14:38