Le incognite del trumpismo: riscrivere la democrazia

La regola vuole che il benessere sia fonte di potere se, e soltanto se, prospera all’interno di uno Stato di diritto (democratico). Sotto un regime dispotico, invece, è il potere a erogare benessere, come accade in tutti i sistemi non democratici, soprattutto se ricchissimi di materie prime. Lì, infatti, è il tiranno a gestire ogni cosa: può dare al popolo come privarlo delle sue ricchezze. Ma, gli Usa non sono la Russia: a nulla valgono le paure che un successo di Donald Trump possa essere foriero di un futuro regime dittatoriale, anche se lui stesso ha dichiarato che utilizzerà l’ufficio presidenziale per “punire i suoi nemici”, avendo in mente personaggi del calibro di Liz Cheney, Joe Biden e Kamala Harris. Il nuovo trumpismo, infatti, è destinato a qualificarsi per un ricorso a tutto campo al meccanismo (democratico) dello “spoil-system”, per la collocazione di fedelissimi nei posti-chiave dell’Amministrazione Usa. Il suo vero problema, però, è l’indebolimento dei contrappesi istituzionali che nel passato hanno contenuto un eccessivo rafforzamento del potere presidenziale, quali un forte senso civico, l’autorevolezza delle più importanti figure politiche, l’autonomia della magistratura e la presenza di partiti politici indipendenti. Oggi tutto questo o non è più vero o ha subito importati trasformazioni in senso alla società statunitense. Anche per questo la rielezione di Trump avrà sicuramente forti implicazioni globali, per il grave pregiudizio che potrebbe arrecare alla credibilità e affidabilità dei meccanismi democratici.

Ma non sono solo gli Usa ad avere timore di una involuzione democratica, dato che certe prese di posizione molto isolazioniste di Trump e dei Maga hanno fatto insorgere seri dubbi all’estero (vedi il Giappone), sia in merito al sostegno all’Ucraina che alla permanenza dell’America nella Nato. E tale questione ha notevoli riflessi anche sul piano economico mondiale, dato che un mancato sostegno a strumenti di regolazione mondiale come il Wto (di cui gli Stati Uniti sono stati in passato i più convinti sostenitori e promotori), potrebbe mettere in serio rischio l’affidabilità dell’Amministrazione americana nel voler mantenere in vita il libero mercato. Soprattutto nel caso di una guerra tariffaria e di imposizione dei dazi nei confronti dei prodotti cinesi ed europei. Anche se, per la verità, l’idea di Trump non è di privilegiare una politica tariffaria protezionistica, quanto piuttosto quella di far leva sui tagli fiscali e un dollaro più debole, per rendere più competitivo all’estero il Made in Usa. In tal senso, i repubblicani sono da sempre contrari a concedere troppa autonomia alla Fed (Federal Reserve) per la fissazione dei tassi di interesse che, dal loro punto di vista, dovrebbero restare bassi anche in presenza di una moderata crescita dell’inflazione. E, comunque sia, la storia dimostra come sia pericoloso abbinare la crescita del costo delle importazioni (drogato dalle barriere tariffarie) alla diminuzione del tasso di cambio del dollaro, per farlo perdere di valore negli scambi.

In genere, infatti, si verifica l’opposto dell’effetto sperato perché, così facendo, senza che vi sia un adeguato contrafforte da parte della Fed, si rischia di aumentare pericolosamente il già notevole deficit fiscale provocando un crollo del dollaro sui mercati valutari, come è già successo negli anni Settanta. Anche le politiche green riceverebbero un severo contraccolpo dall’elezione d Trump, da sempre convinto che il riscaldamento globale sia una “fake-news” e contrario a rientrare negli Accordi di Parigi sul clima (dai quali era fuoriuscito al tempo della sua presidenza), per il contenimento entro 1,5 gradi dell’aumento della temperatura globale. Per i Maga e i NatCon (cui appartiene Viktor Orbán), che prediligono la figura de “l’Uomo forte”, la Cina è il vero avversario globale al quale bisogna resistere a ogni costo. Ma, a dar retta alla loro principale istituzione partitica, la Cpac (Conservative political action conference, una sorta di anti-Davos), non bisogna esagerare a demonizzare la Russia, che è pur sempre un contrafforte della cristianità contro l’avanzata del neoliberalismo. Secondo la Cpac, quindi, andrebbe recuperata, ma stavolta all’inverso, la filosofia nixoniana di “decoupling” di Mosca da Pechino, che però oggi si scontra con le dichiarazioni (e non solo retoriche) di “eterna amicizia” tra i due popoli, cinese e russo. Perché, poi, come sostiene il senatore Josh Hawley, le risorse spese in Ucraina contro la Russia sono quelle di fatto negate a Taiwan per fronteggiare il rischio di invasione da parte della Cina.

Del resto, visto dall’ottica repubblicana, ha ancora senso pensare a un’America in grado di sostenere a tempo indeterminato lo sforzo bellico dell’Ucraina per sconfiggere la Russia, sguarnendo così il suo principale fronte asiatico? Anche perché, dopo la débâcle afghana, per molti osservatori all’estero è davvero difficile dire quali siano i vantaggi nel rimanere nell’orbita statunitense. Quindi, quel che resta chiaramente da capire è come si comporterà una potenziale Amministrazione Trump nei confronti dell’Ucraina. Tradirà l’impegno di Joe Biden nel difenderla a ogni costo, cedendo alla Russia le regioni del Donbass già conquistate dall’Armata Rossa? E, nel caso di un accordo simile al ribasso, in quale modo verrà garantita l’indipendenza di Kiev, dato che, come sostiene James David Vance, la neutralità dell’Ucraina post-bellica è l’aspetto d’importanza capitale per Mosca? E sarà sufficiente tutto questo a dissuadere Vladimir Putin dal tentare altre mosse del genere? Ecco, anziché una campagna elettorale basata sulla mostrificazione (a dire il vero reciproca!) dell’avversario, forse sarebbe meglio per lo sfidante offrire al resto del mondo una seria risposta a queste questioni fondamentali.

Aggiornato il 08 agosto 2024 alle ore 13:32