Usa: la deriva verso l’Africa occidentale

Il processo di uscita-cacciata dall’Africa di molte nazioni occidentali, Francia in testa, è ormai irreversibile. Mentre l’asse subsahariano sta diventando la tomba dell’influenza francese nella regione, gli Stati Uniti stanno sviluppando una dinamica di “deriva” verso l’area centro-nord occidentale africana. Infatti, molteplici rapporti che gli Usa intrattenevano con il Niger si stanno spegnendo, mentre percorsi di cooperazione si stanno aprendo con la Costa d’Avorio.

Il 24 luglio Kenneth P. Ekman, coordinatore del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti per l’Africa, durante una conferenza stampa tenuta presso l’ambasciata americana ad Abidjan, Capitale della Costa d’Avorio, ha delineato i profili di un partenariato allargato con questa nazione, descrivendola come la più affidabile dell’Africa occidentale, sia a livello di stabilità che di sicurezza. La conferenza ha rappresentato il frutto di una serie di accordi già sottoscritti con le autorità politiche e militari ivoriane, che hanno permesso l’apertura di un serie di progetti a medio e lungo termine che porranno le basi per una duratura e proficua cooperazione, ma soprattutto per una presenza nell’Africa occidentale.

L’allontanamento degli Stati Uniti dal Niger è scandito dagli accordi tra Washington e Niamey, che hanno previsto una graduale uscita delle truppe statunitensi dal Paese entro il 15 settembre. Tuttavia, in anticipo sui tempi pattuiti, il 7 luglio un contingente di soldati statunitensi della base di Niamey ha già lasciato il territorio; pochi giorni dopo, dalla base aerea 201 di Agadez sono usciti definitivamente altri duecento militari. Qui erano presenti mezzi di sorveglianza aerea e droni da combattimento, i General Atomics Mq-9 Reaper.

Le perplessità maggiori, sollevate dagli ufficiali statunitensi, riguardano le conseguenze di questo allontanamento dal Niger. Infatti, il rischio è un indebolimento della sicurezza regionale. A questo proposito, ha dichiarato Ekman, a seguito di un incontro tenuto alcuni giorni fa ad Abidjan con le autorità anche militari del Paese, è emersa una preoccupazione condivisa circa la minaccia jihadista che sta dilagando nel Sahel. E la Costa d’Avorio non è esente da questo rischio. Ora per gli Stati Uniti, la cui posizione in Africa è sicuramente indebolita a causa delle diminuite cooperazioni, l’accesso al Sahel è più complicato. Così, il Comando africano degli Stati Uniti, o Usafricom, ha dovuto rivolgere le sue attenzioni verso le forze ivoriane, con una crescente collaborazione militare dove intelligence, sorveglianza, ricognizione, capacità mediche, addestramento, equipaggiamento e formazione in generale esaltano l’aspetto cooperativo, nel quadro di una crescente ricerca della sicurezza. Ma nonostante sussista una importante congiuntura politica con il Governo ivoriano, meno facile è, al momento, la creazione di una base militare stabile sul territorio. Infatti, adesso è previsto solo un affiancamento dei militari statunitensi alle forze armate ivoriane, verosimilmente in attesa che l’opinione pubblica recepisca l’utilità e la necessità della nascita di una base militare Usa (cosa non scontata). Tuttavia, una previsione di un eventuale posizionamento logistico americano nell’area è ipotizzata nella zona più vicina ai confini con il Burkina Faso e il Mali, dove la presenza di gruppi jihadisti è più radicata. E dove le violenze di questi estremisti islamici sono più intense.

Intanto, i militari francesi stanno riducendo la loro presenza anche in Costa d’Avorio, in particolare un centinaio di soldati stanno lasciando la base di Port-Bouët: una sostituzione con gli statunitensi? Non è improbabile, vista la profonda intolleranza dei Paesi saheliani verso la presenza francese nella regione. Ma in Niger, Paese a forte rischio di attacchi da parte di organizzazioni jihadiste, chi resta degli Stati occidentali? Per ora tengono il presidio i militari italiani. Infatti, lo Stivale è l’ultimo partner occidentale del Niger; si è allineata necessariamente al Governo golpista e ha impostato la sua azione diplomatica, concentrandola sul controllo dei flussi migratori, quindi di aree di confine. Il Governo golpista nigerino del generale Abdourahamane Tiani è impegnato in un ri-orientamento geostrategico. In questa ottica si è rivolto all’Iran, alla Russia, che ha dislocato nel Paese gli ex Wagner, ora Africa Corps e alla Turchia, la cui delegazione era presente in Niger il 17 luglio. Come scritto in un mio articolo pubblicato su questa testata, i rapporti tra Teheran e Niamey si erano concretizzati già a maggio, quando il Niger ha venduto all’Iran 300 tonnellate di yellowcake (torta gialla), cioè uranio concentrato, estratto dalle miniere nigerine.

I militari italiani sono presenti in Niger dal 2018; l’obiettivo di Roma è quello di mantenere questa cooperazione al fine di poter controllare i flussi migratori provenienti dall’Africa sub-sahariana. E in questo caso opera nelle attività di sorveglianza delle frontiere. Risulta, dagli ultimi dati resi noti, che poco meno di trecento militari italiani sono presenti in Niger per attività di addestramento e consulenza. È possibile che ci sia stato un aumento delle truppe – informazione fonte Niger – che ha portato la presenza dei militari a circa cinquecento unità. Tuttavia, nessuna notizia ufficiale è stata data dal Ministero della Difesa italiano, che ha finora rivendicato l’addestramento di oltre novemiladuecento soldati delle forze di sicurezza nigerine.

La politica italiana, nell’ottica della questione migratoria, segue le stesse linee in Niger come in Libia e in Tunisia, altri due Paesi da cui parte l’emigrazione clandestina proveniente dall’Africa sahariana e saheliana. Un ruolo strategico, quello italiano in Niger, visto che due delle nazioni presenti nel Paese sono coinvolte in complesse guerre, come la Russia contro l’Ucraina, o cobelligeranti soft come Teheran verso Mosca, o indirettamente coinvolti nella guerra in Israele come l’Iran che supporta gli sciiti Houthi, gli Hezbollah e in primis Hamas. Circa la Turchia, la singolare politica estera la rende un caso all’interno dei membri Nato.

In questo contesto, non si può non notare la poca efficacia dei servizi segreti statunitensi e la non facile missione italiana, ma che indubbiamente è sostenuta da un profilo etico e da modalità strategiche più spendibili, in certi ambiti, di quello di altri Paesi occidentali.

Aggiornato il 29 luglio 2024 alle ore 10:30