La domanda che ora un po’ tutti ci poniamo è, cosa capiterà all’Italia se alle Presidenziali Usa dovesse vincere Joe Biden, con vice Kamala Harris o l’ex presidente per due mandati Barack Obama? O, peggio, se nella sostituzione in corsa ci fosse il ticket Kamala Harris presidente con suo vice Barack Obama? Consideriamo che Obama non è più candidabile, avendo svolto già due mandati presidenziali e per legge Usa non più rieleggibile. Ma va detto che un vice come Obama si rivelerebbe determinante, di potere, ben più dello stesso presidente.
Per fare un parallelismo, una vicepresidenza Obama avrebbe lo stesso peso planetario che ebbe a caratterizzare Henry Kissinger nel trattare con Charles de Gaulle nelle veci di Richard Nixon. Un potere enorme, accresciuto dal dato oggettivo che Obama può vantare rapporti personali con tutti i finanziatori internazionali del Partito Democratico, cosa davvero posticcia per Biden (ormai in amministrazione di sostegno) e parziale per la Harris (è risaputo che non goda dell’appoggio di tutti gli sponsor). Ma la vera iattura per l’Italia sarebbe il ritorno di Obama, anche solo da vicepresidente, anche solo da numero due di Biden o della Harris: in primo luogo rappresenterebbe un rafforzamento della linea politica dell’Unione europea a guida Ursula von der Leyen, poi allontanerebbe di almeno un lustro la possibilità di pace sia per la vertenza Ucraina che in Medioriente, poi spalleggerebbe le acquisizioni (razzie) di imprese europee e patrimoni da parte delle multinazionali anglo-americane.
La vittoria del Partito Democratico negli Usa permetterebbe alla von der Leyen anche di perfezionare il regolamento di conti con i governi europei contrari all’Agenda 2030, con i nemici della tracciatura continua del cittadino e, nello specifico, della “sostenibilità green”.
Nella lista dei nemici, oltre all’ungherese Viktor Orbán, figurano la premier Giorgia Meloni e il vice Matteo Salvini. Le conseguenze sono immaginabili, cambierebbero i rapporti di forza, e non ci sarebbe più un Biden (in amministrazione di sostegno) amorevole e paterno verso il presidente del Consiglio italiano. Invece conosceremmo il peggio della von der Leyen che, con l’avallo degli Stati Uniti, sanzionerebbe pesantemente sia le imprese italiane che le amministrazioni. Un ballo di miliardi di euro che cadrebbe tutto sulle spalle dei contribuenti, portando in un biennio in posizione fallimentare l’Italia, permettendo così alla Germania di riservare al Belpaese lo stesso trattamento che le banche tedesche hanno usato con la Grecia.
Detta in parole povere, Obama potrebbe riservare a Giorgia Meloni lo stesso trattamento che l’amministrazione Usa adottava verso Bettino Craxi: quest’ultimo caduto non tanto per l’episodio di Sigonella, quanto perché “non gradito alla speculazione finanziaria internazionale”, come emergeva dalle rivelazioni degli “invisibili” (007 della finanza di Londra) dopo il vertice del Britannia del 2 giugno 1992.
Quindi si tornerebbe ad imporre all’Italia di dismettere tutti gli asset strategici e, con una forte pressione dei mercati, verrebbe imposta la svendita di tutte le aziende italiane che hanno superato un certo fatturato imponendosi sui mercati internazionali. Un caso del genere è cronaca di questi giorni, e vale come esempio per tutte le aziende italiane a cui verrà imposta la dismissione, peraltro prevista nella “parte riservata” del Trattato di Parigi del 1947.
Ma veniamo all’esempio, l’Antitrust ha sanzionato per 6 milioni di euro in totale Dr Automobiles S.r.l. e la sua controllata Dr Service & Parts S.r.l.: l’accusa è di “aver attuato due pratiche commerciali scorrette”. Ma siamo sicuri che solo Dr abbia acquistato parti di auto, componentistica o intere vetture dalla Cina? La scusa addotta dall’Autorità è che Dr Automobiles, nell’ambito dei messaggi inerenti le comunicazioni commerciali, avrebbe indicato l’Italia come origine e luogo di produzione delle sue auto commercializzate con i marchi “Dr” ed “Evo”.
L’Autorità accusa Dr che le vetture sarebbero realizzate totalmente in Cina, o solo con parti cinesi e salvo marginali interventi di rifinitura italiana. Ma è noto che, se escludessimo Ferrari e Pagani, tutte le vetture commercializzate in Italia vengono prodotte con componentistica totalmente cinese, o in gran parte orientale per le vetture d’alta gamma. La stessa Lamborghini non è più “made in Italy” ma viene fabbricata in Germania e senza rivelare da dove provenga la sua componentistica.
Dr è in Molise e ha offerto all’Autorithy massima disponibilità a chiarimenti e soluzioni, ma l’organo sanzionatorio ha scelto la linea dura e nessuna trattativa con l’unica azienda italiana di automobili. Dr ha spiegato che la delocalizzazione in Estremo Oriente della produzione delle autovetture è pratica comune nel settore “Automotive”: del resto tutti i colossi occidentali producono in Cina, Corea, Indocina e via via in Paesi misconosciuti ed a bassissimo costo della manodopera.
Va detto che Dr è oggi l’unico vero marchio automobilistico italiano. Ricordiamo che Sergio Marchionne moriva a metà swl 2018, e un anno dopo Fca dava vita a Stellantis, con sede legale ad Amsterdam: 14 marchi automobilistici sotto il ceo Carlos Tavares finivano all’estero (nel 2022 il gruppo Fca ha fatturato 180 miliardi di euro con una redditività delle vendite dell’11 per cento, tutti soldi che non hanno favorito investimenti in impianti italiani). C’è da chiedersi se qualcuno non abbia spinto l’Autorità a colpire l’unica casa automobilistica italiana.
Del resto negli anni Sessanta e Settanta la Fiat faceva guerra alle piccole produzioni artigianali, e a quei tempi le rilevava: ricordiamo che l’avvocato Giovanni Agnelli godeva della protezione di Henry Kissinger, e questo permetteva alla Fiat di condizionare i governi italiani. Oggi, in epoca di spietata globalizzazione, il potente auspica semplicemente la chiusura del concorrente.
Ergo, se dovesse perdere Donald Trump prepariamoci al peggio. E la vera economia di guerra non sarebbe più un Ucraina, bensì in Italia, che subirebbe l’assedio da parte dei poteri bancari Ue ed Usa. E non dimentichiamo il personale rapporto che c’è tra Elly Schlein e Barack Obama: la segretaria del Partito Democratico italiano ha lavorato per la segreteria di Obama e si mormora sia stata inserita da George Soros nell’entourage dell’ex presidente Usa. Con Obama vicepresidente, e riferimento mondiale degli sponsor democratici, la Schlein avrebbe maggiori possibilità di colpire il Governo Meloni, contando anche sulla grancassa di giornali e tivù schierate con il Pd.
Aggiornato il 12 luglio 2024 alle ore 16:19