L’Onu si prostra alle richieste dei Talebani

Le donne afghane non fanno più notizia. Probabilmente è per questo che è passata in sordina l’informazione che l’Onu ha accettato le condizioni imposte dai talebani per partecipare alla terza conferenza sul futuro dell’Afghanistan. Già nella conferenza precedente, il gruppo fondamentalista aveva chiesto che non fossero presenti le donne afghane e non si parlasse di diritti umani. In quell’occasione, però, il segretario generale dell’Onu António Guterres aveva definito “inaccettabili” le condizioni proposte con il risultato che i talebani non si erano presentati. Questa volta è andata diversamente. E l’Onu si è sottomesso a richieste irricevibili con la scusa di voler riaprire un dialogo, sia diplomatico che economico, per arrivare a migliorare le condizioni di vita di tutti gli afghani.

Domenica e lunedì scorso l’incontro in Qatar, a Doha, ha visto la partecipazione di una trentina di Paesi – tra cui Unione Europea, Stati Uniti, Russia e Cina – e organizzazioni internazionali. Assenti, oltre alle donne afghane, anche i rappresentanti della società civile e delle organizzazioni per i diritti umani che sono stati ascoltati da Rosemary DiCarlo, sottosegretaria dell’Onu per gli Affari Politici e di Pace, ma separatamente, al di fuori della Conferenza.

Molti osservatori hanno criticato questa scelta sottolineando come sia stata minata la credibilità dell’Onu nella difesa dei diritti umani e delle donne in particolare, oggi definitivamente cancellate non solo nel loro Paese ma anche a livello internazionale.

Dall’agosto del 2021 i talebani hanno ridotto ad un cumulo di cenere i diritti delle donne: istruzione vietata dopo i 12 anni, impossibilità di lavorare, reintroduzione della lapidazione per adulterio, imposizione di essere accompagnate da un parente maschio se si spostano per oltre 77 km, divieto di recarsi nei parchi o nei luoghi pubblici in generale. E naturalmente, nei rari casi in cui possano uscire di casa (ma solo in presenza di un buon motivo), l’imposizione del burqa o l’hijab. Per questo la condizione femminile in Afghanistan è stata definita come “apartheid delle donne”.

Ora questa esclusione è stata vergognosamente accettata e certificata anche al di fuori dei confini nazionali. E protestare a cose fatte, oltre che inutile, è un insulto per chi rischia quotidianamente di essere definitivamente cancellata.

Aggiornato il 05 luglio 2024 alle ore 13:59