Immaginiamo di essere il presidente degli Stati Uniti e di voler conservare il potere o mantenere quello del proprio partito a tutti i costi. Ora immaginiamo di controllare il Dipartimento di Giustizia, l’Fbi e una serie di altre agenzie di intelligence. Cosa ci impedirebbe di avviare molteplici procedimenti penali contro il principale rivale politico? E se fossimo indagati dal Congresso per corruzione e altri crimini, cosa ci impedirebbe di presentare accuse penali contro coloro che nel Congresso rappresentano una minaccia? L’accusa politica è l’arma nucleare dell’interferenza elettorale e nelle mani di politici corrotti, tutto è possibile.
Negli Stati Uniti, l’unico ostacolo che si è avuto all’uso di questa potente arma è stata la tradizione. Ma ora questa grande tradizione di moderazione è scomparsa. Dopo oltre duecento anni di astensione dalla persecuzione politica nelle elezioni presidenziali, come si è arrivati improvvisamente a normalizzare questa pratica, abbandonando l’imparzialità del sistema giudiziario che è stata la stella polare dell’America sin dalla sua fondazione? La risposta è semplice: il pericolo che Donald Trump rappresenta per l’élite al comando. Probabilmente non c’è nessun’altra figura nella storia americana che sia stata demonizzata a tal punto. Quando le persone sono condizionate a credere che qualcuno sia una grave minaccia, anche la giustizia politica diventa accettabile. Diventa accettabile rompere con le norme. Se un pericolo è tra noi, allora dobbiamo fare qualsiasi cosa per neutralizzarlo.
La settimana scorsa a New York City si è concluso il primo processo penale appunto contro Trump. L’ex presidente e attuale candidato presidenziale repubblicano, è accusato di un reato, caduto in prescrizione ma riportato in vita sotto forma di trentaquattro imputazioni, riguardanti falsificazioni contabili su pagamenti a una pornostar per silenziarla sulla presunta relazione extraconiugale con l’ex presidente. Ma secondo il procuratore distrettuale, il vero scopo di tali pagamenti “illegali” era il loro utilizzo per influenzare le elezioni del 2016. Un’accusa talmente pretestuosa, ridicola e surreale che, parlando a Fox News, l’ex candidato presidenziale repubblicano Vivek Ramaswamy ha detto prima del verdetto contro l’ex presidente: “Se sarà giudicato colpevole, si dirà che un uomo è stato condannato per un crimine a cui nessuno può effettivamente dare un nome”.
Il procuratore distrettuale di questo processo assai controverso è Alvin Bragg, procuratore “democratico” dello Stato di New York, finanziato dal fondo di George Soros e di suo figlio Alex per promuovere le candidature dei procuratori democratici. Il giudice del caso è Juan Manuel Merchan, che ha rifiutato di ricusarsi anche dopo che è emerso che sua figlia è a capo di un’azienda che conta come clienti diversi democratici di alto profilo, tra cui il presidente Joe Biden e il vicepresidente Kamala Harris. Questo è il modo in cui certi uomini di legge si preparano a conquistare il potere politico. Cercano sempre di accusare qualcuno di famoso e poi candidarsi a una carica politica distruggendo, nel processo, lo stato di diritto.
Trump andrà in prigione? La sentenza sarà pronunciata l’11 luglio. Rischia fino a quattro anni di reclusione per ogni accusa con una pena massima di 20 anni. La sentenza è stata opportunamente pianificata giorni prima della Convention Repubblicana in cui Trump avrebbe dovuto essere nominato candidato del partito. Anche se molti esperti ritengono che non dovrebbe affrontare il carcere, nel clima attuale da caccia alle streghe i tribunali di New York potrebbero comunque impedirgli qualsiasi tentativo di campagna elettorale. La cosa grave è che il giudice Juan Manuel Merchan ha imposto a Trump, sin dal processo, l’ordinanza di silenzio che gli impedisce di riferire ai membri della giuria, ai testimoni, ai pubblici ministeri e ad altre persone legate al caso. Il motivo non è di poco conto: il dibattito presidenziale con il suo avversario Joe Biden è dietro l’angolo e con l’ordine del silenzio in vigore è impossibile per il candidato repubblicano difendersi qualora, il prossimo 27 giugno, l’attuale presidente democratico decidesse di utilizzare il processo come strumento politico davanti alle telecamere e al mondo. Perché dunque Trump è il pericolo che infesta gli incubi dell'élite al potere?
Per capirlo, bisogna risalire all’anno fondamentale per la storia politica contemporanea, il 2016, quando ebbe luogo, negli Usa, la sua elezione a presidente e, in Inghilterra, apparve la Brexit, due eventi “contro tutte le probabilità”. Donald Trump, un outsider che pensava di poter prosciugare la “palude”, vinse su Hillary Clinton. La Brexit fu la vittoria del popolo sovrano britannico contro la potente macchina propagandistica di un establishment isterico che voleva la sottomissione alla burocrazia di Bruxelles. In entrambi i casi ci fu una rivolta degli elettori contro le strutture del potere politico e mediatico, che ha sconvolto gli equilibri politici del mondo occidentale.
Fu proprio a seguito di questi due eventi che, all’improvviso, la “democrazia” diventò “populismo”, termine da allora impostosi con senso dispregiativo. Sconvolte da questi imprevisti, le élites globaliste entravano nel panico a fronte del rischio di poter essere eliminate dal “voto populista”. Le parole pronunciate da Trump all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 24 settembre 2019 (“il futuro appartiene a nazioni sovrane e indipendenti che proteggono i propri cittadini. Il futuro non è dei globalisti ma dei patrioti”) minacciavano che una seconda vittoria repubblicana in stile Make America Great Again avrebbe compromesso il Grande Reset, la campagna di governance globale per rimodellare l’economia.
Quale poteva essere la soluzione al populismo, cioè al voto contrario alle élite dominanti senza perdere potere? La soluzione definitiva doveva essere la forzatura dell’agenda per l’emergenza climatica preceduta da quella dei blocchi sotto la minaccia di un virus. Il Covid, in particolare, ha apportato negli Usa modifiche incostituzionali della legge elettorale, introducendo schede elettorali per posta, precedentemente considerate soggette a frode, permettendo così di manipolare le elezioni del 2020 a favore di Joe Biden. Lo stato di polizia nazionale americano, l’Fbi, il Dipartimento di Giustizia (Doj) e il Dipartimento della Sicurezza interna (Dhs) hanno collaborato con i grandi giganti della tecnologia, per sopprimere qualsiasi discorso di interferenza elettorale. Non è un segreto che le piattaforme dei social media abbiano diffamato Trump mentre promuovevano Biden. Mark Zuckerberg ha ammesso che Facebook ha aiutato l’Fbi a manipolare le elezioni presidenziali del 2020.
Chiunque pensi che gli Stati Uniti siano ancora il faro della libertà per il mondo e così New York City, la Grande Mela, è meglio che si ricreda. Sta sempre di più assomigliando a una repubblica delle banane. Fuori dal tribunale, dopo la sua condanna, Trump ha affermato che il vero verdetto sarà emesso dal popolo americano il giorno delle elezioni. Vorrei che avesse ragione anche se non sono un suo fan. Sebbene la sua candidatura per la nomination repubblicana del 2024 sia la favorita, dubito che il 5 novembre, in questo clima da potere assoluto, ci sia la possibilità che riconquisti la Casa Bianca. Come ho già scritto in precedenza, l’élite al comando non può permettere di perdere il potere a favore di un nuovo presidente che metterebbe fine all’agenda globalista.
Aggiornato il 06 giugno 2024 alle ore 12:09