Ruanda: trent’anni dopo il genocidio

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Nel 1994, Jean-Claude, un poliziotto hutu in seguito diventato “cacciatore dei tutsi”, aveva 26 anni ed era uno dei 14 agenti di polizia della cittadina di Nyamata, a un’ora di distanza da Kigali, una delle zone più colpite dal genocidio.

Quattro anni prima, il Fronte Patriottico Ruandese aveva attaccato il Ruanda dall’Uganda. Il movimento era composto principalmente dai tutsi, in esilio dal 1959, che il regime ruandese non aveva voluto far ritornare nel Paese.

Nel 1990, dopo quell’attacco, Jean-Claude e i suoi colleghi, su ordine delle autorità, iniziarono a vessare i tutsi della cittadina, arrestandoli senza motivo e picchiandoli. Nel 1992, decine di persone furono uccise e le loro case bruciate. (...) Fino al 1994, nel corso degli incontri, le autorità avevano continuato a ripetere che i tutsi erano “serpenti” e “scarafaggi”, e che il Fronte Patriottico Ruandese, secondo la loro visione tronca della storia, avrebbe “riportato la schiavitù” (degli huti da parte dei tutsi), un tema potente nell’immaginario del regime.

I ruandesi ricevettero il messaggio che i tutsi, tutti i tutsi, che erano cittadini di seconda classe dal 1959, erano alleati del gruppo in esilio che li aveva attaccati. Quando la sera del 6 aprile l’aereo del presidente ruandese Juvénal Habyarimana venne abbattuto, le autorità si affrettarono a diffondere un messaggio accusatorio: “Ecco la prova che quello che vi abbiamo detto era vero, hanno ucciso il nostro presidente”.

“Sparo nella boscaglia come gli altri”

La sera del 10 aprile, quando i soldati arrivarono in Ruanda, la polizia mostrò loro le case dei tutsi per ucciderli. Molti di loro si erano rifugiati nella chiesa locale, altri in un terreno di fronte alla casa di comunità, dove si trovavano diverse migliaia di persone spaventate, pensando che le autorità le avrebbero protette. Invece, le autorità decisero opportunamente di ucciderle su due piedi. I soldati e la polizia armati di fucili e granate, e i miliziani con machete e mazze chiodate, circondarono i rifugiati e iniziarono a sparare sulla folla, lanciando granate e brandendo i machete.

Jean-Claude iniziò a sparare contro chi gli era più vicino, e poi, man mano che le vittime indifese cadevano al suolo esanimi, sparò verso il centro della folla. E lo fece ripetutamente. Aveva dieci cartucce nel fucile a colpo singolo e quando le finì gliene furono fornite altre. I miliziani finirono il lavoro con machete e mazze. Fu una vera carneficina, una strage, un massacro. Quante persone uccise? Non lo sa o si rifiuta di dirlo. Sparò sulla folla come gli altri.

Quello che è certo è che uccise tutti i giorni per un mese, prima nel centro del villaggio, poi nei boschi e nelle paludi, e che non rimase mai a corto di munizioni. Cosa provò? “Dapprima, paura,” ci dice, “ma poi la paura scomparve, non provava nemmeno gioia, uccidere divenne un’abitudine. Era un lavoro ordinato dalle autorità e noi abbiamo fatto il nostro dovere”. Prendeva ordini e obbediva, come Adolf Eichmann e gli altri carnefici nazisti della Soluzione Finale. (...) [Gli] assassini hutu non mostrarono né sensi di colpa né rimorsi. Le loro confessioni erano meccaniche, fatte in obbedienza alle nuove autorità. Ma nel profondo non emerge alcuna traccia di sensi di colpa.

(*) Tratto dal libro di prossima uscita Rwanda 94 le Carnage: 30 ans après, retour sur place

(**) Tratto dal Gatestone Institute – Traduzione a cura di Angelita La Spada

(***) Nella foto: circa 90mila rifugiati ruandesi aspettano di ricevere cibo dalla Croce Rossa il 20 maggio 1994 nel campo profughi di Benako, in Tanzania (foto di Alexander Joe/Afp tramite Getty Images)

Aggiornato il 14 maggio 2024 alle ore 09:56