I nove errori del governo di Lula in Brasile

Pochi giorni fa, durante una conferenza, ho posto una domanda semplice che, in effetti, era una sfida: “Qualsiasi anima di riconosciuta buona volontà può citare qualche misura corretta e coerente presa dal ministro delle Finanze e dalla sua squadra, in questi sedici mesi in chi ricopre la carica?”. E ho aggiunto, cercando di rallegrare i presenti: “Uno solo, uno solo: dai, chi rischia?”.

Il silenzio che seguì fu fragoroso, clamoroso e rumoroso, ma, allo stesso tempo, meditabondo, triste e spaventoso. Con la dovuta autorizzazione della buona vecchia retorica, posso dire di aver sentito, proveniente dalla sala attigua all’auditorium, il ronzio di una audace mosca perduta, nello stesso momento che ho subito notato la perplessità dei presenti, che sembravano essere alla ricerca di qualche risposta in grado di rispondere in modo soddisfacente alla mia provocazione, come se qualche suono volesse uscire – ma senza poterlo fare – dalle loro gole.

Cari lettori, come economista e come brasiliano, è davvero triste dirlo, ma alla domanda che ho posto, semplicemente, non è possibile rispondere. È impossibile che qualunque individuo dotato di minime conoscenze di economia o, semplicemente, dotato di sufficiente intelligenza per trarre utili insegnamenti dalla scuola della vita, anche con sufficiente buona volontà e spirito collaborativo, possa individuare qualcosa di buono o trovare qualcosa di minimamente utilizzabile in gestione.

Un’inevitabile indignazione sale dall’animo quando sappiamo che la squadra economica del Governo non solo non fa ciò che dovrebbe essere fatto, ma – ciò che è ancora peggio – fa esattamente ciò che non dovrebbe essere fatto, ripetendo e amplificando gli stessi grossolani errori commessi in il passato, che ha portato l’economia del Paese alla stagnazione, con rarissime fughe di polli guidate da deficit e inflazione e interrotte da disoccupazione e recessione.

Anche le nostre care nonne, maturate dagli insegnamenti che solo l’esperienza dà, sanno recitare a memoria la sintesi di ciò che si dovrebbe fare: in sostanza, controllare la spesa pubblica, ridurre la pressione fiscale, sforzarsi di ridurre nel tempo il debito pubblico, semplificare il sistema fiscale e adoperarsi per approvare leggi che possano contribuire ad aumentare la produttività. Ma cosa stanno facendo il ministro Fernando Haddad e i suoi accoliti? Ebbene, esattamente il contrario: aumentare irresponsabilmente la spesa, attaccare senza pietà i contribuenti e adottare misure che certamente tendono ad aumentare i costi di produzione, a ridurre la produttività e a complicare la vita di chi lavora e produce.

La frustrazione è forte, ma senza alcuna sorpresa, fatta eccezione per certi economisti “liberali” e “conservatori” che, per un semplice capriccio con il precedente Governo, o per vecchie rivalità con l’ex ministro Paulo Guedes che risalgono a ai tempi bui del blocco dei prezzi, o semplicemente perché fanno parte del noto sistema di potere patrimoniale che da molti anni succhia il sangue al Paese, si presentano ora scioccati dai fallimenti dell’economia che la mediocrità del Governo impone al Paese e che non può più essere ignorato o nascosto.

Alcune di queste imitazioni caricaturali delle “Maddalene pentite” hanno anche una buona preparazione teorica (altre, non così tanta), ma il fatto è che la maggior parte di loro erano tecnicamente in grado di prevedere il collasso che comincia ad avvicinarsi. Tuttavia, spinti da invidia, o dispetto, o vanità, o interessi politici personali, o qualunque altro sentimento poco lodevole, hanno preferito sostenere la candidatura risultata vincitrice nelle votazioni elettroniche. Certo, hanno esercitato il loro innegabile diritto di scelta ma, allo stesso tempo, saltando ormai uno per uno dalla barca quando inizia a imbarcare acqua e simulando critiche che potevano perfettamente anticipare nel 2022, assumendo un’aria di sorpresa, sono – in tutti i sensi – ipocriti.

Ora, l’attuale politica economica riflette fedelmente la visione del mondo dei suoi esecutori, un’interpretazione completamente al contrario, che fa sembrare che essi vivano ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso. Testato e riprovato più volte da diversi governi e in molti Paesi, ha sempre fallito e fallirà ovunque e ogni volta che verrà replicato. Al centro di questa visione, a svolgere il ruolo del vitello d’oro che Mosè distrusse (Libro dell’Esodo, 32), c’è lo Stato, venerato come unica entità capace di governare l’economia e la vita di tutti.

Esaminando questa convinzione, è facile vedere che essa rifiuta praticamente tutto ciò che, poiché stimola il progresso, dovrebbe essere considerato desiderabile e considera desiderabile tutto ciò che dovrebbe essere rifiutato, perché è noto generare ritardo, come desiderabile, in vista del grande traguardo di creare una “società giusta” sulla Terra. È molto faticoso cercare di polemizzare contro questi credenti, perché sono noti per essere avversi ai fatti e sempre inclini a distorcerli per mettere al primo posto la loro arroganza, ideologia e interessi di potere. Ma questa constatazione non ci impedisce di tracciare un breve elenco delle loro idiosincrasie.

In primo luogo, giurano a gambe unite che più il Governo spende, meglio è per il Paese, perché presumibilmente solo le spese pubbliche, scelte politicamente, sono in grado di soddisfare i desideri della popolazione, poiché il settore privato è una terra di nessuno, in cui gli imprenditori badano solo ai propri interessi e spesso sfruttano anche le proprie madri.

In secondo luogo, in questa linea, credono che né il deficit pubblico né il debito pubblico siano un problema, perché il Governo sarà sempre in grado di finanziare il primo e pagare il secondo. Accettano addirittura che, a livello individuale e aziendale, vivere permanentemente “in rosso” sia una pratica sconsigliabile, ma ritengono – quando si tratta del Governo, per qualche motivo esoterico – che spendere al di sopra del reddito e indebitarsi permanentemente sia una virtù che conduce le persone alla Terra Promessa.

In terzo luogo, l’inflazione dei prezzi non è un problema ed è addirittura auspicabile per stimolare l’economia, perché, sapendo che in futuro potranno vendere i loro prodotti a prezzi più alti, gli imprenditori si affrettano ad aumentare la produzione. E anche l’inflazione monetaria è una buona pratica, poiché è uno dei modi per finanziare le spese che renderanno il Paese prospero e la popolazione felice come pulcini nella spazzatura.

Un altro falso dogma della setta è che più il Governo incassa, maggiori sono i benefici per il Paese, perché sono le tasse a fornire le risorse per far prosperare l’economia e perché esiste un teorema mistico e cabalistico, secondo cui “il denaro in possesso del Governo è più utile dal punto di vista sociale del denaro nelle mani di chi ha lavorato per guadagnarsi le sue proprietà”.

In quinto luogo, queste persone considerano la proprietà privata non come un diritto fondamentale, ma come qualcosa di relativo e giustificabile solo se soddisfa obiettivi considerati “di interesse sociale”. Invadere terre e case altrui, allora, può essere una pratica da incoraggiare, nella prospettiva di costruire una “società giusta”.

Un’altra convinzione dei sostenitori della visione statalista del mondo è che più le decisioni sono centralizzate, meglio è per tutti, perché è essenziale avere un “progetto Paese”, in cui una mezza dozzina di persone illuminate tracciano i destini di milioni di contribuenti. La sua gerarchia di attori decisionali è letteralmente l’opposto del principio di sussidiarietà che è alla base del federalismo. Per loro prima viene l’Unione, poi gli Stati, poi i Comuni e infine, in fondo, gli individui, la cui libertà di compiere le proprie scelte deve essere subordinata ai dettami che vengono “dall’alto”, cioè si può essere liberi, ma solo per fare ciò che le autorità stabiliscono e senza lamentarsi, perché questi sono obiettivi più alti che mirano al bene collettivo. Il suo motto potrebbe essere “tutto per Brasilia, niente per il Brasile”, oppure “tutte le strade portano al Planalto”.

Settimo: gli investimenti rilevanti per l’economia del Paese devono essere decisi anche dal gruppo che detiene il potere. E le risorse per questi investimenti devono provenire dalle banche statali, perché queste istituzioni “appartengono al popolo” e sono immuni agli interessi individuali che guidano gli investimenti privati, che si basano su criteri di produttività capitalistica.

Ottavo: l’attuale gruppo economico considera ogni privatizzazione come una pratica maledetta che deve essere prevenuta con ogni mezzo possibile, perché pone il Paese in dipendenza da aziende egoiste, che pensano solo ai propri azionisti e senza alcuna “sensibilità sociale”. Per alcuni, la semplice distribuzione dei dividendi da parte di società con una certa partecipazione statale è un crimine contro il Paese.

Infine, dobbiamo evidenziare la mentalità globalista, l’abbandono della sovranità nazionale e la sottomissione agli agenti internazionali che dettano le linee guida di quella che è forse la più grande delle utopie moderne, quella di un governo mondiale, sostenuto da molti miliardi di dollari una mezza dozzina di potenti eccentrici che credono di essere proprietari della verità e detentori della conoscenza e sostenuti da organizzazioni come l’Onu, il World Economic Forum e migliaia di Ong che stanno cercando di imporre la loro agenda economica, politica, ambientale, alimentare e doganale su di noi. E persino determinare quale dovrebbe essere la popolazione mondiale, senza alcuna consultazione preventiva con le principali parti interessate, gli abitanti.

Non è necessario commentare ciascuno di questi nove punti, tanta è la loro ovvietà, ma è necessario sottolineare l’assoluto impegno dell’attuale Governo brasiliano nei confronti di ciascuno di essi e degli altri che non sono stati elencati. Vista la situazione, ogni persona ben informata sa che sono tutti dannosi per le attività economiche e per il Paese e che, certamente, nessuna economia potrebbe resistere a lungo senza andare in tilt. Tuttavia, le cose peggiorano ulteriormente, se a ciò aggiungiamo il caos istituzionale che stiamo vivendo, l’enorme incertezza giuridica, la disastrosa politica estera e il conseguente esacerbamento dell’incertezza sul futuro. È impossibile, purtroppo, prevedere prospettive positive per il Brasile nei prossimi mesi, non importa quanto i media asserviti cerchino di manipolare i fatti. La domanda che ho posto durante la conferenza non ha risposta.

(*) Economista e scrittore

Aggiornato il 09 maggio 2024 alle ore 09:32