La nuova geopolitica dell’Europa centro-orientale
La memoria storica. Non c’è dubbio che il mondo contemporaneo è cambiato a causa degli avvenimenti degli anni 1989-1991 che hanno segnato in primo luogo la sorte dell’Europa centro-orientale. In Polonia le elezioni del 1989 le ha vinte il sindacato, o per meglio dire, il movimento di Solidarność. Pure i comunisti dovevano cedere alle nuove forze in altri Paesi dell’Europa centrale (cominciando dall’Ungheria) e alla fine è avvenuta pure la caduta del Muro di Berlino, che ha permesso la riunificazione della Germania. Nel 1991 si è conclusa la vicenda storica dell’Unione sovietica. Uno dei risultati della dissoluzione dell’Urss è stata anche la nascita degli Stati indipendenti situati a est della frontiera orientale polacca (Lituania, Bielorussia e Ucraina). Va ricordato che il primo Paese che ha riconosciuto subito l’indipendenza dell’Ucraina è proprio la Polonia.
In questo contesto, va sottolineata l’importanza dell’allargamento dell’Unione europea del 2004 – esattamente 20 anni fa – grazie al quale di fatto è rinata l’idea dell’Europa centro-orientale facente riferimento a diverse concezioni geopolitiche (dalla Mitteleuropa a guida tedesca al Trimarium con la Polonia al centro di tale formato). Va però detto che il concetto di nuovi equilibri in quella parte dell’Europa doveva essere legato non solo all’allargamento dell’Ue, ma anche all’adesione alla Nato – almeno all’inizio, poi allargato a quasi tutta la zona di quella parte del continente europeo – dei tre Paesi (Polonia, Ungheria e Repubblica ceca) avvenuta nel 1999. E non si deve scordare che tutti e due i processi venivano visti non solo nell’ottica politico-economica o puramente militare, ma in primo luogo come la garanzia della stabilità in tutta l’Europa.
Nei tempi del crollo del comunismo sovietico, simboleggiato da quello del Muro di Berlino, è rinata la possibilità della cooperazione regionale e ciò è stato sfruttato dai governi dell’Europa centrale che, facendo pure riferimento alle tradizioni risalenti addirittura al periodo medioevale (il summit dei re di Polonia, di Boemia e di Ungheria nel 1335) – nello stesso posto, a Visegrad, hanno firmato (il 15 febbraio 1991) una dichiarazione comune. Significativi erano i nomi dei firmatari, cioè i presidenti di rispettivi Paesi: Lech Wałęsa, Vaclav Havel e Jozsef Antall. All’inizio, il progetto ha ottenuto il nome del Triangolo di Visegrad ma dopo la dissoluzione della Cecoslovacchia ha assunto quello del Gruppo di Visegrad. Per i Paesi dell’Europa centrale, che in quel tempo si sono ritrovati nella zona grigia nel settore della sicurezza, dal punto vista economico e politico, la prospettiva dell’integrazione con la nuova Unione europea era molto lontana (doveva essere una specie di aggancio all’Europa, quella non più sottoposta all’influenza della Russia post-sovietica). Ma il nuovo ruolo geopolitico del Gruppo di Visegrad è diventato evidente, in modo particolare, negli anni 2015-16 a causa della “crisi dei migranti”, superando così, almeno parzialmente, i problemi all’interno del Gruppo causati invece dall’altra crisi, cioè dalla guerra russo-ucraina iniziata già negli anni 2013-2014.
Già allora, la Polonia – a differenza di altri Paesi della regione – ha assunto la posizione nettamente filo-ucraina e di conseguenza anti-russa, invece Budapest, Praga e Bratislava erano molto più cauti nei confronti della causa ucraina. Le divergenze delle opinioni sono state temporaneamente superate proprio in occasione dell’ondata migratoria del 2015 che, indirizzandosi verso i Paesi più ricchi dell’Unione europea, ha toccato anche una parte dell’Europa centrale e alla quale si è opposta con fermezza l’Ungheria di Viktor Orbán, successivamente sostenuto dal nuovo Governo polacco formatosi dopo la vittoria alle elezioni presidenziali e parlamentari del 2015, ottenute nel primo caso dal giovane politico, Andrzej Duda e dal partito chiamato PiS (Diritto e Giustizia), formazione di centrodestra guidata da Jarosław Kaczyński. Va sottolineato che fra Orbán e Kaczyński ci sono molti punti d’incontro (come nel caso dell’opposizione alla politica migratoria dei Paesi occidentali), ma anche alcuni argomenti di contrasto, in primo luogo quelli riguardante i rapporti con la Russia e il giudizio generale sulla guerra russo-ucraina, in modo particolare di fronte all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Vladimir Putin nel febbraio 2022. In questo caso, è evidente il divario tra il “pragmatismo” di Orbán e la “fermezza” di Kaczyński. Senza dubbio, i due leader sono critici nei confronti di una Unione europea gestita solo dall’asse franco-tedesco supportata dalla burocrazia di Bruxelles. E invocano l’osservanza della sovranità degli Stati nazionali che compongono la stessa Ue, conformemente alle concezioni dell’Europa delle nazioni e delle patrie.
Rispondendo all’attività del nuovo “blocco dell’Est” – come veniva definita dai media occidentali, in modo particolare in Germania – la politica europea del Gruppo di Visegrad era aspramente criticata, dalla vecchia Europa, specialmente una presunta mancanza della solidarietà nella soluzione della crisi migratoria, chiedendo addirittura il blocco dei finanziamenti europei se i Paesi dell’Est non volessero acconsentire alla delocalizzazione di un determinato numero dei migranti (così come peraltro è stato imposto nell’Ue dal recente Patto di migrazione).
La guerra. È vero, ciò viene spesso dimenticato in Occidente, che la guerra in Ucraina non è iniziata solo nel febbraio del 2022, perché le azioni militari della Russia risalgono al 2014, quindi al periodo dell’appoggio Russo (di fatto un intervento) a favore delle repubbliche separatiste di Donetsk e di Lugansk. E, prima di tutto, all’occupazione della Crimea. Non a caso, nel 2005 il presidente della Federazione russa, Vladimir Vladimirovic Putin, ha pronunciato una frase, che forse in un primo momento non è stata recepita in modo adeguato (specialmente in Europa occidentale) ovvero che la “più grande catastrofe geopolitica del XX secolo” fu la disgregazione dell’Unione sovietica. Il concetto era chiaro: la Russia doveva fare di tutto per ripristinare, se non status quo ante, almeno il controllo sui principali stati indipendenti dell’ex Urss e in modo particolare sull’Ucraina.
In questo contesto, va sottolineata l’importanza delle adesioni della Polonia alla Nato (nel 1999) e all’Unione europea (con grande allargamento del 2004) grazie alle quali, di fatto, è rinata l’idea di un ruolo più incisivo dei Paesi dell’Europa centro-orientale nel nuovo assetto geopolitico di tutta l’Europa, con particolare interesse nei confronti della propria regione. D’altra parte, durante il suo primo decennio della membership nella Nato, la Polonia ha dovuto subito impegnarsi nelle missioni in Jugoslavia e in Afghanistan, affiancando dall’inizio gli americani nell’operazione in Iraq. Invece, nel periodo 2005-2010 l’atteggiamento della Polonia nei confronti della Russia era influenzato dai conflitti politici interni, in modo particolare dopo il 2007 quando il presidente Lech Kaczyński, che agiva in accordo con allora leader dell’opposizione e partito di destra (Diritto e Giustizia), quindi con suo fratello, Jarosław Kaczyński, ma che nello stesso tempo doveva “coabitare” con il Governo del liberale, Donald Tusk. Va anche ricordato che, come in gran parte dei Paesi occidentali (compresi gli Usa sotto la presidenza di Barack Obama ma anche successivamente nei tempi di Donald Trump) con i governi di Donald Tusk, dal 2007 al 2014 (e che successivamente dal 2014 al 2019 avrebbe ricoperto la carica del presidente del Consiglio europeo) si cercava il il disgelo (oppure reset) nei rapporti con la Russia. Questa linea politica veniva fermamente osteggiata dai rivali interni di Tusk, ovvero da già menzionati fratelli Kaczyński. Così, non si può scordare che Lech Kaczyński, presidente polacco dal 2005 al 2010, ha trovato la morte nel disastro del suo aereo presidenziale a Smoleńsk, quindi sul territorio della Russia, nell’aprile 2010 (quando si recava per onorare gli ufficiali polacco trucidati dalla Nkvd sovietica nel 1940). Intorno a questa catastrofe, sono sorte molte polemiche, anche in relazione al famoso discorso del presidente polacco in corso del meeting a Tbilisi (nel 2008) quando, portando nella capitale georgiana, minacciata dai carri armati russi, la solidarietà espressa con la presenza personale dei presidenti dei Paesi dell’Europa centro-orientale, ha pronunciato una specie di “profezia geopolitica” riguardante la politica di aggressione della Russia di Putin, sostenendo che la prima vittima era la Georgia, ma che poi gli eserciti mandati da Mosca, avrebbero potuto apparire – nell’ordine di successione – in Ucraina, nei Paesi baltici e infine in Polonia.
In modo particolare, l’atteggiamento della Polonia è diventato cruciale quando l’esercito di Putin ha invaso l’Ucraina il 24 febbraio del 2022, iniziando di fatto la guerra su larga scala e con l’uso di armamenti di ogni tipo, con lo scopo di prendere Kiev (mancato) o, come “programma minimo”, annettere alla Russia tutte le regioni contese. La Polonia ha dato subito non solo il sostegno “morale” con la retorica di solidarietà, ma quello concreto con la fornitura delle armi e in modo particolare con l’accoglienza di quasi 7 milioni ucraini in quanto profughi di guerra (di cui sono rimasti circa 1,5 milioni), ospitati non nei “campi dei rifugiati” bensì nelle case dei semplici cittadini polacchi.
Prendendo in considerazione la difficile storia non solo dei Paesi, ma in primo luogo quella interpersonale dei polacchi e degli ucraini, ciò che è successo nei primi mesi del conflitto militare nel 2022 ha assunto già un’importanza particolare per i futuri rapporti fra la Polonia e l’Ucraina. In tale quadro, va sottolineata la collaborazione intergovernativa e quella di due figure di spicco, cioè dei presidenti Andrzej Duda e Wołodymir Zełeński. La Polonia, anche a causa del suo atteggiamento proposto dall’inizio della guerra, non ha ottenuto però un vero aiuto economico dall’Ue, ma senza dubbio la fiducia del Paese chiave nell’ambito dell’Alleanza Atlantica ovvero dagli Stati Uniti, e quindi non a caso il presidente americano, Joe Biden, ha scelto la capitale polacca Varsavia (21-22 febbraio 2023) per una visita-simbolo a quasi un anno dall’invasione russa dell’Ucraina (preceduta dalla visita-lampo a Kiev) come un evidente sfida nei confronti del padrone di Cremlino.
In Polonia – a prescindere dal fatto che quasi tutte le forze politiche appoggiano l’Ucraina nel conflitto con la Russia – ci sono diverse idee del futuro dei rapporti polacco-ucraini. Fra i politici, il sostenitore instancabile è il presidente della Repubblica, Andrzej Duda, ma anche i dirigenti di due formazioni politiche che da quasi 20 anni si alternano al Governo del Paese, ovvero il PiS di Jarosław Kaczyński e il Po (Piattaforma civica, partito di estrazione liberale) dell’attuale (dal dicembre del 2023), primo ministro polacco, Donald Tusk. Ma le dichiarazioni di supporto sono state espresse anche dai dirigenti di quasi tutti partiti (con qualche distinguo dei nazionalisti). Praticamente da quasi tutte le personalità della vita pubblica, della cultura, del mondo delle scienze e del giornalismo. Il contributo particolare, riconosciuto anche a livello internazionale, lo ha dato la popolazione, gente semplice, aprendo le proprie case a milioni di profughi di guerra ucraini.
Nello stesso tempo, e sempre nell’ambito dei rapporti privilegiati con gli Usa, la Polonia sta rafforzando il proprio sistema di difesa del territorio nazionale. Ciò è anche dovuto alla crescente consapevolezza che l’invasione russa dell’Ucraina ha cambiato radicalmente la situazione geopolitica, non solo dell’Europa centro-orientale. Quindi, avrà l’influsso sulla sorte della stessa Polonia e del suo ruolo nel panorama politico europeo come probabile leader della fascia orientale della Nato: dal Baltico al Mar Nero. La lunga guerra di Vladimir Vladimirovic Putin e la resistenza ucraina, nonché l’appoggio polacco al suo vicino dell’Est (malgrado i travagliati rapporti del passato), hanno pure il carattere di “lunga durata” (come anche insegna la storia di questi rapporti). E la via d’uscita – va detto in modo oggettivo – non è di facile soluzione. Esigerebbe una pace veramente giusta per l’Ucraina e la fine, da parte russa, del suo progetto neo-imperialista. Intanto la guerra continua...
(*) Professore dell’Università di Cracovia Uken (Polonia)
Aggiornato il 26 aprile 2024 alle ore 11:16