Che cosa succede ai militari “totipotenti” del Pakistan? Proprio loro, che sono stati i grandi protettori di Bin Laden e balie premurose del terrorismo jihadista sunnita? Dunque, come nelle favole in cui la strega cattiva ha la peggio, tocca all’esercito il ruolo sgradevole di dis-facitore dell’unità nazionale che, fino a oggi, i suoi stessi generali avevano garantito, assestando colpi di Stato a ripetizione per liberarsi degli scomodi Governi civili, fautori di disordini e di feroci contrapposizioni all’interno della società pakistana. Viste le attuali, insanabili divisioni in seno agli alti ranghi dell’esercito, viene rimesso drasticamente in discussione il loro ruolo di “Salvation army”, dopo la catastrofica perdita di prestigio conseguente alla presa di posizione antimilitarista dell’ex primo ministro Imran Khan, deposto e incarcerato su istigazione dei vertici militari. E tutto ciò malgrado che il partito di Khan avesse ottenuto la maggioranza dei seggi parlamentari nelle ultime e divisive elezioni dello scorso febbraio. Il nuovo Governo civile si è già insediato da marzo con la benedizione della leadership militare che, tuttavia, non ha posto rimedio alle profonde divisioni in atto nel Paese. Ed è questa frattura, che ha coinvolto anche i ranghi militari, a preoccupare maggiormente il capo di Stato maggiore, il generale Syed Asim Munir. All’interno dei circoli militari, infatti, non è un mistero per nessuno che una parte significativa degli alti gradi dell’esercito simpatizzino per il partito di destra Movimento per la Giustizia del Pakistan (Pakistan Tehreek-e-Insaf, o Pti), di cui Khan è presidente e fondatore.
Per inciso, il Pti persegue una politica nazionalista e antiamericana, che intende spostare la politica estera di Islamabad su posizioni russe e cinesi. E sarà proprio l’esito di questo braccio di ferro a stabilire quale sarà la futura collocazione geopolitica di un Pakistan potenza nucleare, e quinto Paese più popoloso del mondo. E queste divisioni tra le alte gerarchie militari intervengono in un periodo particolarmente critico per il Pakistan, che attraversa una profonda crisi economica al suo interno, mentre sul fronte internazionale il generale Munir è costretto a correre ai ripari per rimediare alla rottura con Washington voluta dal Governo Khan, il cui partito accusa gli Stati Uniti di cospirazione a danno dell’unità nazionale. Tra l’altro, il Pakistan deve vedersela con le sfide politiche e di sicurezza che lo investono da ogni lato del suo campo di azione, dovendo guardarsi in primis dall’arci-rivale indiano e dal suo primo ministro “integralista hindu”, Narendra Modi; per non parlare poi dei contrasti con l’Iran e con l’Afghanistan dei Talebani. Di recente, infatti, mentre gli iraniani hanno lanciato a gennaio attacchi aerei su basi pakistane, cui è seguita una risposta a bassa intensità da parte di Islamabad, sull’altro versante, nel mese scorso, gli jihadisti hanno attaccato postazioni pakistane al nord e ai confini sud con l’Afghanistan.
Di tutto questo stato di crisi e di caos i militari pakistani sono i primi responsabili, dopo decenni di regime del generale Pervez Musharraf, che ha lasciato il potere nel 2008, per far posto a una fragile democrazia. Oggi, il timore fondato di Munir, è che entrambi i Partiti in lizza, il Pti e il Pakistan muslim league-nawaz (Pmln) di Nawaz Sharif, vogliano tenere sotto controllo l’esercito, come del resto accade in ogni democrazia che si rispetti. Il problema è, che così facendo, Washington perderebbe il controllo sulla gestione del deterrente nucleare pakistano, assicuratale fino a ieri dalla collaborazione del regime dei generali. L’elezione nel 2018 di Khan a primo ministro era stata favorita dalla leadership militare, che lo aveva appoggiato in considerazione sia della sua vicinanza al Governo di Musharraf, sia per la sua condanna delle dinastie politico-familistiche pakistane, accusate di corruzione. Ma la scelta di Khan si è rivelata decisamente controproducente, a seguito del suo invito insistente, rivolto al popolo, di estromettere l’establishment politico e di rigettare l’influenza americana. D’altronde, con l’inflazione che viaggia a due cifre, la popolarità di Khan è andata rapidamente declinando e, come tutti i politici a corto di argomenti, volendo proiettare all’esterno le difficoltà interne, l’ex premier ha accusato gli Stati Uniti di cospirazione con i militari pakistani per destituirlo dal potere, creando una frattura interna alle stesse forze armate. Di conseguenza, al Parlamento non restava altro che sfiduciarlo nell’aprile del 2022, su sollecitazione della leadership militare.
Nell’ottobre successivo, la commissione elettorale pakistana ha dichiarato l’incandidabilità di Khan per comportamento scorretto e omesse comunicazioni alla commissione stessa di regalie a suo favore. E quando nel marzo 2023 l’Alta corte di Islamabad ne ha ordinato l’arresto, la Corte suprema ha cassato la decisione nel maggio successivo, chiedendo però conto e spiegazioni a Khan dei disordini popolari avvenuti dopo il suo arresto. Successivamente l’ex premier ha avuto altri guai giudiziari, con la condanna a 10 anni di carcere per divulgazione di segreti di Stato, e un’ulteriore condanna a 14 anni per il caso “Toshakhana”, relativo alla vendita illegale di doni di Stato. Il tutto, per impedire a Khan di candidarsi alle elezioni dell’8 febbraio 2024, il cui esito ha favorito la formazione di un Governo di coalizione, con la nomina a primo ministro di Mian Muhammad Shehbaz Sharif.
Ma la partita non si chiude qui, dato che il mandato triennale di Munir scadrà proprio a novembre, in coincidenza con le elezioni presidenziali Usa, e il suo successore potrebbe riportare in auge la leadership di Khan. In questo senso, la storia recente del Pakistan ci ha riservato non poche sorprese, come nel caso di Nawaz Sharif (fratello dell’attuale capo del Governo) rimosso per ben tre volte dall’incarico di Premier e due volte esiliato. Anche sul fronte pakistano, pertanto, sarà bene che l’Occidente tenga gli occhi molto bene aperti!
Aggiornato il 10 aprile 2024 alle ore 09:29