Fare il “comunicatore” in una nazione come la Tunisia – che nella classifica mondiale di Reporter Senza Frontiere sulla libertà di stampa passa in un anno dal novantaquattresimo posto (2022) al centoventiduesimo (2023) – non è esente da rischi. Kaïs Saïed, realizzato il golpe del 25 luglio 2021, appena tre giorni dopo il suo insediamento a presidente del Paese si è apprestato a destituire l’amministratore delegato della televisione nazionale, disegnandone il nuovo assetto ed escludendo tutte le “voci” dissidenti dai programmi televisivi, oltre a incentrare i palinsesti solo sulle attività governative. Nonostante le accese proteste del novembre 2022, dove i giornalisti e gli operatori della comunicazione delle tivù di Stato hanno manifestato il loro dissenso per il bavaglio posto sulla libera informazione, Saïed ha proceduto con minacciose convocazioni e con le sostituzioni dei quadri gestionali con giornalisti di sua fiducia, fedeli alla nuova “linea editoriale” espressione dell’Esecutivo. Così, il Sindacato nazionale dei giornalisti tunisini, Snjt, accusò il presidente di volere trasformare la televisione nazionale in un organo di propaganda del regime.
Ora, dopo oltre un anno, con il crollo della libertà di stampa in Tunisia, anche gli artisti e i blogger sono sotto la minacciosa “spada” dell’inibizione. In questo quadro repressivo, il 22 marzo il giornalista Mohamed Boughalleb è stato posto sotto custodia dalla polizia, nell’attesa che venga stabilita una data per un incontro/interrogatorio con un giudice istruttore. Boughalleb è entrato nelle attenzioni di un burocrate del Ministero degli Affari religiosi, che lo ha accusato di danneggiare la sua reputazione. La norma giuridica che ha permesso il fermo del giornalista fa riferimento a un decreto promulgato dal Capo dello Stato nel settembre 2022, la legge 54/2022. Il testo ha l’obiettivo di combattere la diffusione di false voci e false notizie; la determinazione di “false” è fissata dalla sensibilità del presidente e dei ministri. La “falsità” viene stabilita dall’utilizzo “non conforme” di sistemi informativi e reti di comunicazione con finalità di promozione, pubblicizzazione e divulgazione di voci ingannatrici e notizie infondate. Il reato è punibile con cinque anni di reclusione e un’ammenda di cinquantamila dinari, circa 14.800 euro. Ma la pena prevista può toccare i dieci anni di prigionia, se a essere diffamato è un pubblico ufficiale.
Dall’entrata in vigore della legge 54/22, numerosi giornalisti hanno subito ritorsioni per quanto espresso nell’esercizio della propria professione. Così come in una veloce escalation, anche molti blogger tunisini hanno avuto la stessa sorte, affrontando condanne detentive per aver espresso le proprie opinioni sui social network. Amnesty International, a fine 2023, aveva già espresso forti preoccupazioni per l’aumento dei civili interessati dalle azioni penali dei tribunali militari dopo il 25 luglio 2021, data dell’assunzione dei pieni poteri da parte di Saïed. Da quel giorno a metà gennaio di quest’anno, secondo un rapporto pubblicato dall’Asl-Alleanza per la sicurezza e le libertà, l’unione delle organizzazioni tunisine e internazionali della società civile, poco meno di millecinquecento individui (circa 1.487) sono stati perseguiti per azioni legate alla loro attività politica e alla libertà di espressione.
Nasreddine Helimi, per esempio, è condannata il 7 marzo a sette anni di carcere dal tribunale militare di Le Kef, città situata a circa quaranta chilometri dal confine algerino. L’accusa è di aver pubblicato sia osservazioni inerenti la situazione politica che critiche sull’operato delle forze armate. Il decreto legge 54 stabilisce sei anni di detenzione ma ha ottenuto un anno di più, attinto dal codice di giustizia militare, a causa della sua critica all’esercito.
Il blogger Abdelmonem Hafidhi, attivo sui social, è arrestato il 18 febbraio, processato il 7 marzo dal tribunale di Gafsa e condannato a sei mesi di reclusione per offesa al Capo dello Stato. Inoltre, Hafidhi rischia pure il licenziamento dalla ditta per cui lavora, la Gafsa fosfato. La stessa sorte, per la medesima accusa, cioè l’offesa al Capo dello Stato, è toccata al ventisettenne Rached Tamboura. Tamboura, studente alla facoltà di Belle arti di Tunisi e militante nell’estrema sinistra tunisina, ha subito l’arresto il 17 luglio 2023 per avere disegnato graffiti che rappresentavano Kaïs Saïed come un “razzista-fascista”, in riferimento alla sua presa di posizione riguardo ai migranti sub-sahariani cacciati, in mezzo al deserto, senza acqua né cibo verso i confini libici e algerini. La condanna a due anni di reclusione è stata confermata in appello il 31 gennaio.
La lista dei repressi è lunga e le motivazioni sono sempre le stesse. L’applicazione della legge numero 51 sull’antiterrorismo, accompagnata al decreto legge 54 e 55 riferiti al reato di oltraggio al Capo dello Stato, disegnano un quadro normativo che assomiglia a un imbuto giuridico, dove tutti rischiano di doverci passare. Ma Saïed ama professare che tale “regole” servano a ristabilire il prestigio statale, con la semplice repressione di ogni “verbo” dissenziente.
Aggiornato il 28 marzo 2024 alle ore 10:09