Mentre il regime degli Ayatollah persegue la sua politica di oppressione verso il genere femminile, utilizzando lo stupro come strumento di deterrenza per quelle donne iraniane che si ribellano all’oppressione dell’hijab, i “cugini di persecuzione”, i Talebani, arrestano le donne che mal indossano il velo. I Taleb, che tradotto significa “studenti”, infangando il significato del termine, proseguono il loro percorso oppressivo verso il genere femminile, escludendo le donne dalla vita sociale, non solo nei piccoli e marginali centri ma anche nelle grandi città.
Ormai i social network riescono a spalancare le finestre su contesti e avvenimenti sociali che sarebbero celati dall’informazione di regime. Così sulle “reti di comunicazione” sono circolate immagini che, se non fosse per il diverso abbigliamento degli aguzzini, potrebbero essere state riprese in Iran, dove agenti di polizia talebani armati costringono con la forza le donne afghane a salire sui loro mezzi, soprattutto nella capitale del Paese, Kabul. Risulta che, da inizio 2024, l’incarcerazione delle donne si sia incrementata in modo allarmante. Di contro, secondo quanto comunicato dalle autorità afghane, tali fermi sono motivati dalla non osservanza corretta nel rispettare delle regole relative a come indossare l’hijab. Nella difficoltà di avere informazioni certe circa il numero delle arrestate, risulta comunque che decine di loro si trovino attualmente detenute nel carcere di Kabul. Richard Bennett – nominato nell’aprile del 2022 relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan – aveva già denunciato, a gennaio, le nuove modalità operative dei Talebani relative all’aumento delle restrizioni alla libertà delle donne. Anche recentemente ha sollecitato le autorità talebane a rilasciare le ragazze arrestate, però senza alcun esito.
Gli islamisti talebani tornati vergognosamente al potere a metà agosto del 2021, nel maggio del 2022 hanno emanato un decreto che obbliga le donne di mostrare solo gli occhi. Inoltre, hanno raccomandato di indossare abiti scuri o meglio il burqa, che occulta completamente la figura, riesumando esattamente le regole applicate nel loro precedente periodo di potere tra il 1996 e il 2001. Tuttavia, queste normative sull’abbigliamento non hanno ottenuto grandi effetti, soprattutto nelle grandi città del Nord, dove non è difficile incontrare donne che indossano un velo o un foulard che copre i capelli ma lascia scoperto il viso. Ma soprattutto nei quartieri sciiti si possono notare ancora abiti colorati o veli che lasciano intravedere i capelli.
Diversa la situazione nelle zone marginali e rurali del Paese, dove la tradizione è chiaramente molto radicata. Nei venti anni di interregno “occidentale”, 2001-2021, la realtà femminile aveva accennato a evolversi, in termini di abbigliamento, ma nonostante i governi liberali manovrati e supportati dall’Occidente l’abbigliamento conservatore, come il burqa, è rimasto la norma. D’altronde, a Kabul e nelle città più grandi indossare l’hijab colorato che lascia scoperto il volto è diventato un simbolo di muta resistenza ai dettami oscurantisti talebani. Le norme di matrice talebana lontane da ispirazioni religiose sono destinate a escludere le donne da ogni tipo di vita sociale, riducendole al rango di banale proprietà degli uomini, alla stregua di un terreno, di un bestiame o di un oggetto qualsiasi.
La società afghana soffre chiaramente, come altre numerose realtà islamiche, la “segregazione di genere”, che vieta alle donne di lavorare, di studiare oltre i dodici anni, di andare nei parchi, di viaggiare all’interno del Paese, di curarsi l’aspetto. E rende difficile anche ogni tipo di relazione esterna alle mura domestiche. Abdul Ghafar Farooq, portavoce del famigerato Ministero della Morale e della Virtù, ha comunicato che le donne che vengono arrestate non hanno rispettato il codice di abbigliamento – reato di “uso improprio dell’hijab” – sostenendo di avere agito sollecitato dalle numerose segnalazioni che denunciavano il mancato rispetto dell’uso dell’hijab a Kabul e nelle province.
Un alibi chiaramente pretestuoso, che conferma un complesso di problematiche interne alla società maschile afghana e non solo. Una “patologia di genere”, tipica di una società oscura e misogina che, con violenza e oppressione, esercita la prevaricazione di genere sulla parte caratterialmente più forte e culturalmente più elevata della società.
Aggiornato il 06 marzo 2024 alle ore 09:36