La guerra tra Israele ed Hamas è probabilmente uno dei conflitti più articolati di questi ultimi tempi. Essere “articolati” significa che quello che viene mostrato come il casus belli, molto spesso, è il pretesto per accendere o allargare spaccature geopolitiche. L’allargamento del potente gruppo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) ai nuovi partner – Emirati Arabi Uniti, Egitto, Iran ed Etiopia – ha segnato un innalzamento e un rafforzamento dei livelli relazionali con il Continente africano. In tale contesto, un altro fattore ha assunto un significato geostrategico rilevante. Ossia il ruolo dell’Etiopia, che sta assumendo sempre maggiori caratteristiche di “Impero etiope”. Così, l’Unione africana – Ua – sabato 17 febbraio ha ritirato lo status di “osservatore” a Israele. Ebba Kalondo, portavoce del presidente della Commissione, ha dichiarato che il dossier relativo all’accreditamento di Israele è stato chiuso.
Un grave antecedente si era verificato nel febbraio del 2023, durante il precedente vertice dell’Unione africana svoltosi ad Addis Abeba quando, mentre si stavano aprendo i confronti tra i capi di Stato del Continente, la delegazione israeliana fu cacciata senza alcuna particolare “attenzione cerimoniale”. Insomma, lo Stato di Israele è stato allontanato in malo modo dal vertice. Proprio il Sudafrica – che ricordo come nel dicembre scorso abbia denunciato Israele per “genocidio” su Gaza alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia – e l’Algeria, sono stati i Paesi che hanno operato per convincere i partner africani (senza alcuna fatica) a emarginare i rappresentanti israeliani dall’Assemblea. In pratica, si sono opposti alla presenza dello Stato ebraico come membro osservatore all’interno dell’organizzazione panafricana. Da circa dieci anni la diplomazia israeliana era impegnata per avere questo riconoscimento. A due anni dal successo diplomatico dell’accreditamento, Tel Aviv viene risolutivamente bandita dall’Organizzazione.
Ma sarebbe geostrategicamente troppo banale se l’azione dell’Unione africana si limitasse a una “cacciata di Israele”. Infatti, l’istituzione panafricana ha accolto in pompa magna il sessantacinquenne primo ministro dell’Autorità palestinese, Mohammad Shtayyeh, che è stato osannato dall’Assemblea generale, godendosi lo scranno d’onore e un lungo applauso da parte dei capi di Stato membri. Va anche ricordato che gli Stati membri dell’Unione africana da decenni sono impegnati nel sostenere la “causa palestinese” (fior di milioni di dollari), accomunando il destino del popolo palestinese, difensore del “proprio territorio”, al popolo africano che ha difeso le proprie terre dal colonialismo. Questo vecchio concetto è stato ribadito, ormai come una litania, al cospetto dei leader africani, che hanno condiviso questa “pietra angolare” di una “struttura” complessa, quella del colonialismo, che ritengo ancora non completamente definito a causa del cambiamento degli attori sul palcoscenico africano. E anche dalla variazione del “concetto di colonialismo” avvenuto nel quadro della globalizzazione. I capi di Stato dell’Ua sono andati oltre all’allontanamento di Israele. Moussa Faki Mahamat, favorito dallo scenario, ha accusato l’offensiva israeliana su Gaza di essere in palese violazione dei principi del diritto internazionale umanitario; e che nella volontà di Israele c’è lo sterminio dei cittadini di Gaza e dintorni.
Al fine di definire la “vena” antisemita che serpeggia nell’Unione africana, va menzionata la posizione assunta da Azali Assoumani, che ha elogiato il Sudafrica per aver presentato denuncia contro Israele alla Corte internazionale di giustizia. Lo stesso personaggio che rieletto a gennaio 2024 alla guida delle Comore, con un voto a dir poco discutibile e viziato da brogli e minacce, nel 2023, per l’inaugurazione di una moschea sull’isola di Anjouan (Comore), si dichiarò profondamente antisemita, affermando: “Dobbiamo convivere con i cattolici ma anche con gli ebrei maledetti, su di loro ricada l’ira di Dio. Gli ebrei sono i padroni del mondo. Non sono come noi. Si nascondono nell’ombra e si rivelano al momento opportuno”. Ciononostante, la “questione” non è conclusa. Lo Stato di Israele è sì ufficialmente espulso dall’Ua ma, grazie al lungo impegno diplomatico di Benjamin Netanyahu, l’Africa non è ancora compatta in merito. Ciò è dimostrato dal voto alle Nazioni Unite del 27 ottobre 2023, sulla “risoluzione” che chiedeva una tregua umanitaria immediata a Gaza. In quell’ambito trentotto Paesi africani hanno sostenuto la “risoluzione”, ma sette si sono astenuti. L’influenza di Israele in Africa è ancora rilevante. Gli sforzi del Governo israeliano si sono suggellati negli Accordi di Abramo e in quelli precedenti; nel consolidamento della cooperazione in ambito militare, difesa/offesa e sicurezza con Ruanda, Repubblica democratica del Congo, Ghana, Kenya e Marocco, con il quale aveva già da tempo normalizzato i rapporti.
Insomma, partner affidabili che godono anche della sicurezza informatica offerta da Israele con la fornitura, a questi Stati, dello spyware Pegasus, prodotto dalla società israeliana Nso Group; ma anche con la fornitura e l’adeguata formazione per assemblare e utilizzare gli ormai onnipresenti droni tattici. Così, metaforicamente, potremmo porre sui “piatti della bilancia degli interessi e dei principi dell’Unione africana”, da una parte l’offerta della sofisticata tecnologia israeliana e dall’altra l’antisemitismo dell’Ua. E non mi stupirei se, a breve termine, fosse più pesante il primo piatto.
Aggiornato il 20 febbraio 2024 alle ore 10:17