Dice una nota teoria economica che i Governi (democratici) sono chiamati nei loro programmi di spesa a decidere sistematicamente tra le due fattispecie contrapposte di “guns or butter” (burro o cannoni). Quest’ultima condizione coincide con un noto modello macroeconomico, che funziona come una semplificazione del “National spending” (spesa pubblica, come componente fondamentale del Pil), in cui esiste nelle economie complesse una forte correlazione tra gli investimenti pubblici in materia di difesa e la spesa sociale per la produzione dei così detti “beni civili”. Ora, tutto questo a Gaza funziona sostituendo alla parola “gun” il vocabolo “tunnel”, nel senso che in pratica negli ultimi 15 anni più del 90 per cento del Pil della Striscia, controllato interamente da Hamas, è stato impiegato per la costruzione di centinaia di chilometri di tunnel sotterranei e per la retribuzione di un esercito super armato di miliziani fondamentalisti. E questa situazione, totalmente sbilanciata al riarmo indiscriminato dei palestinesi, proprio in vista dell’ennesima Soluzione finale nei confronti del popolo ebraico (così com’è solennemente sancita nello statuto di Hamas), si è andata progressivamente rafforzando a partire dal 2005, quando Israele si ritirò da Gaza smantellando tutti i suoi insediamenti presenti nella Striscia. Allora, Ariel Sharon decise di fare quella mossa clamorosa per rispondere con i fatti alle accuse internazionali di aver ridotto Gaza a una prigione all’aperto, bloccando e immiserendo l’economia dei territori.
Quindi, è ragionevole supporre che dal 2007 in poi il fiume di miliardi di dollari, fatto affluire da allora dagli Stati petroliferi donatori del Golfo e interamente amministrati da Hamas, che aveva vinto le uniche elezioni libere del 2006, fossero interamente devolute alla parte “butter” dell’alternativa di spesa pubblica della Striscia. Oggi sappiamo che è andata esattamente al contrario di quanto ci si potesse aspettare! Di chi la colpa, a questo punto, se la gente di Gaza non ha strutture produttive e vive di sussidi e di carità internazionali? Ma vediamo in dettaglio ciò che nasconde alle opinioni pubbliche mondiali il mainstream del pensiero “woke” planetario filo-Hamas, che emana dai camini dei pensatoi delle più prestigiose università americane ed europee, come un fumo nero e acre dall’antico sapore antisemita. Fino al 6 ottobre 2023, le forniture elettriche e alcuni beni primari erano garantiti da Israele, che oltretutto, sul piano sanitario, consentiva ai gazawi di ricevere cure oncologiche e salvavita nei casi più gravi. Un’inchiesta condotta dal New York Times (che più progressista, politicamente corretto e wokist non si può), stimava che la lunghezza complessiva dei tunnel di Hamas si estendesse per 350/500 chilometri sotto terra (la metropolitana di Londra, per esempio, ha una rete di appena 250 chilometri) e, per non pochi tratti, arrivasse a profondità superiori ai 50 metri. Alcuni di questi passaggi sono utilizzati come depositi di armi e di missili, mentre altri ospitano confortevoli bunker di comando. Secondo altre stime condotte da esperti militari israeliani, esisterebbero più di 5mila ingressi separati ai tunnel, dotati di compartimenti stagni, con accesso da case private, scuole e ospedali, così come confermerebbero anche fonti di intelligence Usa.
La realtà oggettiva, quindi, è che Hamas ha fatto del territorio di Gaza una gigantesca fortezza per attaccare Israele e per tenerla impegnata per molto tempo nella sua attuale rappresaglia, facendo leva sul biasimo internazionale per le migliaia di vittime civili palestinesi dei bombardamenti dell’esercito israeliano. Di cui, però, Hamas porta l’intera responsabilità, avendo fatto della popolazione della Striscia un unicum come scudo umano. Per i fondamentalisti, una tregua di lungo periodo a questo punto risulterebbe una vittoria, perché ad Hamas è sufficiente sopravvivere per vincere, mentre la sua stessa sopravvivenza rappresenterebbe per Israele una sconfitta clamorosa dopo tanti lutti. Ma per capire l’oltraggio commesso nei confronti del popolo gazawi da parte della loro leadership è sufficiente fare a costoro qualche conto in tasca, calcolando a spanne gli immani costi delle migliaia di tonnellate di cemento e ferro utilizzati per la costruzione dei tunnel e le spese correnti in elettricità per l’illuminazione e l’areazione necessarie per mantenerli attivi. Il tutto, tenuto conto che, sempre secondo stime israeliane citate dal Wall Street Journal, per 32 tunnel sarebbero stati spesi 90 milioni di dollari. Quante migliaia di operai palestinesi sono stati impiegati per la loro realizzazione e quanti incidenti mortali sul lavoro si sono registrati? E quanti di quei materiali “dual-use” sono stati acquistati con fondi internazionali e arrivati nella Striscia passando per il confine israeliano?
In buona sostanza, a tutti gli effetti Hamas ha sottratto in più di un decennio molti miliardi di dollari alla parte “butter” per utilizzarli nella sua folle corsa verso i “guns”, senza che vi fosse nessun consenso popolare in merito, dato che il suo governo condanna semplicemente a morte che osa opporvisi! Del resto, dal 2007 tutta la risorsa-lavoro gazawi è stata finalizzata a scopi distruttivi anziché produttivi per l’incremento del benessere sociale. Israele ha tutte le colpe possibili per non aver limitato le perdite civili, ma qualcuno deve pur dire quale sia l’alternativa per la ricerca e la distruzione dei tunnel di Gaza, che utilizzano per mimetizzare i loro ingressi case, scuole e ospedali civili. Tenendo ben presente, per domani, che se quella rete sotterranea restasse più o meno intatta, la minaccia mortale all’esistenza di Israele non potrà mai essere rimossa!
Aggiornato il 07 febbraio 2024 alle ore 10:15