Dov’è che rischia di annegare la geopolitica? Risposta: in un mare tutto Giallo! Meglio vedere allora da vicino i numeri di questo (incipiente?) disastro. All’apice della cuspide si colloca l’isoletta ipertecnologica di Taiwan, in cui si fa sempre più concreto il rischio di una battaglia navale epocale tra Usa e Cina che si estenderebbe ben oltre l’Oceano Pacifico. Dal lato opposto, passando dal giallo confuciano al verde islamico, si profila il nuovo conflitto (ma sarebbe assai meglio parlarne al plurale) originato dalla pirateria degli Houthi nel Mar Rosso, conseguenza fin troppo evidente del protrarsi delle operazioni anti-Hamas su Gaza da parte dell’esercito di Israele. Anche qui: se si trattasse in fondo di pirati, le armate occidentali ci metterebbero meno di due settimane a venirne a capo, vista la modestia dell’avversario. Ma, al solito, è la statura gigantesca del loro burattinaio (l’Iran) a preoccupare il resto del mondo libero, del quale evidentemente non fa parte per sua stessa scelta il Global South, guidato dai moderni Torquemada di Cina, Russia, Iran, Brics e così via elencando. Ma anche l’Europa non naviga affatto in acque tranquille, da due anni a questa parte, dato che la guerra in Ucraina coinvolge anche le flotte di Mosca e Kiev presenti nel Mar Nero e in Crimea. Da cui si deduce che le potenze marinare siano di ritorno. Sì, ma come? E qui contano davvero i numeri bruti del tonnellaggio, dell’ammodernamento dei vascelli e della capacità produttiva dei singoli contendenti.
Diciamo subito che, per ora, il vantaggio incolmabile dell’Occidente sta proprio nelle sue flotte di sottomarini ultramoderni. Ma diciamo anche che questo vantaggio si va sempre più assottigliando proprio a favore della Cina, che da un decennio ha investito parecchie centinaia di miliardi di dollari nell’ammodernamento delle sue navi da guerra e nella produzione di nuovo tonnellaggio, che oggi ne fa la prima potenza del mondo per stazza complessiva. L’Europa, invece, come potenza marinara nel suo insieme, è in netto arretramento dal 1999, con una diminuzione del 28 per cento del numero dei suoi sottomarini e del 32 per cento per quanto riguarda le fregate. Ora, malgrado che il fenomeno del protezionismo (con l’estensione progressiva delle acque territoriali nazionali) sia in netta ascesa, è pur vero che le grandi vie d’acqua costituiscono la vena giugulare dell’economia mondiale, attraverso cui passa all’incirca l’80 per cento (per volumi di tonnellaggio) del commercio planetario, e questo fenomeno non ha fatto che aumentare con la crescita degli scambi globali. Metaforicamente parlando, il mondo ha già fatto l’esperienza drammatica delle conseguenze che un “embolo” ostruttivo potrebbe creare a questo sistema di arterie d’acqua essenziali, come è già accaduto con i lockdown da Covid e con l’incagliamento della mega nave Ever Given, che si è messa di traverso, bloccando tutti i traffici nel canale di Suez. E non è sufficientemente parlare di che cosa e quanto viaggia in superficie sugli oceani, dato che quello che c’è sotto è altrettanto vitale, quando si parla di telecomunicazioni o di gasdotti marini.
Se gli oceani sono il nervo sempre teso e scoperto dell’ordine internazionale, è pur vero che, per loro stessa natura, costituiscono lo scenario in cui questo ordine si regola e si svolge. Per esempio, il mondo oggi ha tutto da temere dal riaccendersi della rivalità Cina-Usa nel Mar Cinese Meridionale, dove si affacciano Vietnam, Filippine, Malaysia e Indonesia. In questo caso, è il People’s Liberation Army Navy (Plan) a fare la parte del leone, avendo in cantiere una terza portaerei da poter schierare nella regione. Ed è proprio il Plan ad aver assunto l’iniziativa di ricercare basi portuali in giro per il mondo, che vanno dalle Isole Salomone, passando per la Guinea Equatoriale, fino ad arrivare agli Emirati Arabi Uniti. Ora, va notato che esistono differenze sia qualitative che quantitative quando si parla di geostrategia via terra o via mare. Un’armata o corpo di spedizione terrestre, infatti, raggiunge il suo teatro di azione, si dispiega e, poi, a fine missione, torna indietro allo stesso modo, con il vantaggio non da poco che nessuna esercitazione congiunta terrestre potrebbe portare a uno scontro tra grandi potenze. Il che è esattamente all’opposto per quanto riguarda le grandi esercitazioni navali, data l’immensità del territorio “liquido” sul quale si muovono le navi da guerra, i cui obiettivi posso cambiare in brevissimo tempo, proprio grazie a quella gigantesca libertà di movimento. Esempio: una nave che navighi verso un porto alleato può cambiare in un solo giorno direzione e dirigersi verso le coste yemenite, per abbattere i missili lanciati dagli Houthi. Ma anche la perdita di una nave da guerra è incomparabilmente più grave rispetto alla distruzione di mezzi blindati, dati i tempi lunghi di rimpiazzo.
E poiché le acque profonde sono libere alla navigazione, allora si capisce bene come formazioni nemiche possano venire più facilmente in contatto, rispetto alle armate di terra che debbono vedersela con gli ostacoli geografici e i confini nazionali. Ma ciò che è più importante, per capire le sfide in corso, è rappresentato dal fatto che la produzione di un naviglio militare è (giustamente) un monopolio di Stato. In una crisi territoriale i corpi di armata dispiegati possono ricevere nuovi contingenti in caso di necessità, ma in mare le cose stanno diversamente, a causa delle grandi distanze e delle velocità molto più limitate, compresa la complessità della sequenza degli ordini da dare ai comandi. E questo, d’altra parte, limita il rischio di un bagno di sangue tra navi nemiche. Per di più, nessun alto ufficiale in Europa né nella Nato ha al momento un’esperienza dirette di battaglie navali. Ad esempio, l’ammiraglio che aveva combattuto nelle Falkland è già da tempo a riposo. Allora: chi ci difenderà dall’aggressione crescente delle flotte di Russia, Cina e Iran?
Aggiornato il 06 febbraio 2024 alle ore 09:47