In genere, quando un processo arriva a un punto morto si parla di vicolo “cieco”. Nel caso della politica internazionale è in un vicolo “bieco” ed è costretta, dai fatti, a prendere atto del proprio fallimento nella risoluzione diplomatica dei conflitti. La guerra scatenata dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022, anche se era in corso in maniera surrettizia dal 2014 con attacchi e rivolte patrocinate da ambedue le parti, ha rappresentato un bruttissimo risveglio per coloro che credevano superato l’uso degli eserciti come mezzo di risoluzioni di controversie diplomatiche. Purtroppo, ancora l’umanità non si è liberata, forse non lo farà mai, della volontà di potenza e, come Tucidide ci insegna, “la storia è governata non dall’astuzia della ragione, del logos, ma dalla potenza del desiderio e dalla speranza”. Va preso atto dell’incapacità delle due parti, di volta in volta, di rifiutare un accordo oggi, nella speranza di mediarne uno migliore domani. Intanto però la distruzione del territorio ucraino, delle migliaia di vite tra civili e militari di entrambi è continuata senza sosta. Persino il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, in genere molto prudente su queste tematiche, presa in castagna da due attori russi, si è lasciata andare a considerazioni “scorrette”, anche se diffuse nel sentire comune, sulla stanchezza delle opinioni pubbliche europee su questa guerra.
Nel contempo, il 7 ottobre 2023 Hamas ha lanciato un attacco terroristico nei confronti di inermi civili israeliani, provocando la reazione dello Stato ebraico, che ha martellato la Striscia di Gaza e i centri del potere islamista della regione senza però, dopo settimane di combattimenti, riuscire a stroncarne la resistenza, liberare gli ostaggi e riportare l’ordine nella regione. Quello che sta avvenendo, invece, è un allargamento del conflitto, la destabilizzazione del Medio Oriente, una strage di civili che avrà conseguenze per i prossimi decenni con la probabilità di un aumento del radicalismo islamico e di altri attentati terroristici contro cristiani ed ebrei sia in patria che all’estero. Inoltre, gli ultimi sviluppi nel Mar Rosso, con i ribelli dello Yemen – Houthi – che con atti di pirateria stanno costringendo l’Occidente a spostare uomini e mezzi nella regione, non fanno dormire sogni tranquilli. E l’uccisione di tre militari statunitensi nell’attacco alla base militare Usa Tower 22 nel nord della Giordania è un ulteriore elemento di fibrillazione generale. E un colpo all’immagine di superiorità militare degli Stati Uniti di Joe Biden. A volte la potenza è nulla senza controllo, come recitava un famoso spot pubblicitario. Il vero dramma è l’incapacità delle grandi potenze di stabilire un piano comune per non arrivare a uno scontro che, anche se non sarà frontale (speriamo), sarà un problema finanziare, gestire e poi chiudere “onorevolmente”.
Certamente la pace non può essere imposta unilateralmente, ci si dovrebbe arrivare attraverso la promozione di valori come la libertà, la tolleranza, l’empatia e il rispetto reciproco e dalla collaborazione volontaria tra le nazioni per lo scambio economico e il comune sviluppo. Nella qual cosa, sembra che in pochi si vogliano impegnare, forse anche per non apparire deboli agli occhi della controparte. Nel tessuto complesso della società, un approccio alternativo potrebbe essere articolato partendo da un sano “anti utopismo” inteso come elemento di riflessione critica, avendo presente che una pace assoluta e permanente è impossibile che si realizzi. Scrive Pier Paolo Portinaro ne Il realismo politico: “La politica non è solo idealità, programma, artificio, costruzione istituzionale, funzione giuridica ma intreccio di interessi, moti profondi, fattori viscerali, pendenze di lungo periodo. Soprattutto la politica non è solo rappresentazione dell’agile in pubblico, ma ha rapporti, per lo più dissimulati o solo parzialmente manifesti, con le dimensioni del privato e del segreto”.
Proprio per questo, sarebbe più utile un atteggiamento anti-utopista, consapevoli che la pace non può essere raggiunta attraverso una politica “idealistica”, a causa delle limitazioni e delle ambiguità intrinseche alla condizione umana. Infatti, ci sono conflitti e tensioni che purtroppo sono inevitabili. Tuttavia, questo non implica la rassegnazione alla violenza o all’ingiustizia; piuttosto, suggerisce l’importanza di adottare approcci realistici nella diplomazia e nella conduzione delle diverse trattative sulle grandi questioni che agitano il mondo: da Gaza all’Ucraina, passando per tutte guerre che affamano l’Africa e di cui si parla troppo poco. Nell’ambito delle relazioni internazionali, il pragmatismo consiglierebbe di agire non solo in base ai propri interessi nazionali, ma anche tenendo conto delle dinamiche del potere e delle realtà geopolitiche, considerando l’importanza della diplomazia, della negoziazione e della cooperazione tra nazioni, con l’obiettivo di gestire le tensioni e risolvere i conflitti senza ricorrere alla violenza, preservando sicurezza e benessere a lungo termine.
Inoltre, la promozione della libertà può contribuire a promuovere la convivenza pacifica, in quanto necessaria per l’innovazione, l’imprenditorialità e la crescita economica, elementi fondamentali per la prosperità e cuore pulsante per una società libera e aperta. Sperando che, con un po’ di buon senso e spirito pratico, e con le prossime Presidenziali americane e le elezioni per il Parlamento europeo, si trovi una via “onorevole” per uscire dal vicolo “bieco” in cui sembra che l’Occidente a guida “democratica” ci abbia cacciato.
Aggiornato il 01 febbraio 2024 alle ore 10:29