Il gioco iraniano: i vincitori vinti

La domanda ricorrente è: a quale gioco giocano i Mullah? Sotto il loro turbante c’è solo un aspide o anche una strategia? E se sì, quale? Stando alla loro grande passione della guerra per proxy, ne verrebbe fuori il paradosso dei vinti vincitori. Infatti, se si guarda dal lato di Hamas, Teheran non sarebbe stata informata del pogrom del 7 ottobre 2023, mettendo così il regime con le spalle al muro, colpevole di averli super armati con un imponente arsenale di missili di ogni tipo. Questo perché il fine di congelare per anni gli Accordi di Abramo, favorito dalla mediazione politica di Pechino per un riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, imponeva di astenersi dal propagare venti di guerra nella regione, come invece sta accadendo a causa di Hamas e della overreaction di Israele. Infatti, è probabile che, fin dall’inizio delle operazioni israeliane su Gaza, Yahya Sinwar e i suoi abbiamo chiesto l’aiuto delle milizie libanesi, per alleggerire l’assedio di Israele, ma senza ottenere finora, per volontà di Teheran, il pieno coinvolgimento degli Hezbollah filo iraniani al potere in Libano. E, malgrado questi ultimi abbiano fatto di Beirut uno stato fallito e disastrosamente amministrato, il mondo intero è costretto a confrontarsi con l’esercito organizzato dei suoi miliziani, tenuto in vita grazie ai notevoli aiuti iraniani, petrolio compreso. E, finora, Hezbollah è stato il solo a lasciarsi teleguidare da Teheran, tenendo un basso profilo sul confine israeliano (tranne scambi “ortodossi” di tiri di artiglieria e di missili facili da neutralizzare), mentre altrettanto non si può dire degli Houthi, che hanno attirato con la loro pirateria le flotte armate occidentali ai confini marini dell’Iran.

Perché, se è vero che nei casi afghano, irakeno e vietnamita il Grande Satana occidentale se n’è dovuto tornare precipitosamente a casa con disonore, è pure vero che quei fronti erano omogenei, quindi con uno scopo e un ordine di battaglia ben preciso, e non plurimi come in questo caso, in cui Hamas, Hezbollah e Houthi possono giocarsi interessi in proprio anche divergenti da quelli dei loro sponsor iraniani che vorrebbero irreggimentarli nel così detto Asse della Resistenza. Per non parlare del terrorismo sunnita dello Stato Islamico, di cui ancora una volta Teheran ha subito il devastante impatto (malgrado l’intelligence Usa avesse per tempo avvertito i mullah!), con il recente doppio attentato nei pressi della tomba di Qassem Soleimani a Kerman, che ha fatto centinaia di vittime. Anche qui, con ogni probabilità, c’è da supporre che le intelligence israeliana e americana non si siano fatte scrupoli di giocare i fondamentalisti sunniti contro i loro arcinemici sciiti nella regione e, quindi, l’avvertimento americano era in fondo una captatio benevolentiae per aprire canali riservati con la dirigenza iraniana. Esistono in merito precedenti illustri come quando, in funzione antisovietica, gli Usa e i suoi alleati fornirono armi avanzate e consulenti militari ai mujaidin afghani, che prevalsero sull’Armata Rossa anche grazie alla tecnologia occidentale. Del resto, gli israeliani sono maestri nell’utilizzo dei servizi segreti per eliminare all’estero i loro nemici, vedi quanto accaduto di recente quando sono stati colpiti in Siria e in Libano alti dirigenti del Corpo delle Guardie islamiche-rivoluzionarie e capi di Hezbollah.

All’attentato di Kerman i mullah hanno reagito colpendo con missili a lunga gittata alcune basi pakistane dell’Isis, aumentando così i rischi di un conflitto allargato in Medio Oriente, come quando Israele, Giordania e Iran hanno bombardato le roccaforti siriane dei fondamentalisti. In generale, la strategia di Teheran a medio termine è chiara: raggiungere lo status di potenza nuclearizzata per tenere a bada una volta per tutti i suoi nemici giurati, come gli Stati del Golfo e l’Arabia Saudita. In mancanza della deterrenza nucleare, e grazie alla forte presenza di componenti sciite, come in Iraq, Libano e Siria, l’Iran ha armato e utilizzato le milizie fondamentaliste sia in funzione anti-Isis (intervenendo in Siria e in Iraq), che contro Israele e gli interessi occidentali nella regione, come sta avvenendo con Hamas e gli Houthi. Ma, così facendo, fin tanto che non avranno raggiunto lo status di potenza nucleare regionale, i religiosi di Teheran rischiano in ogni momento l’intervento armato occidentale per impedire la fase finale dell’arricchimento dell’uranio. E più le squadre navali americane resteranno vicine alle iraniane, maggiore è la probabilità di un first strike preventivo per impedire all’Iran di divenire una minaccia nucleare, come invece si è lasciato che accadesse nel caso della Corea del Nord.

E poiché l’eventuale escalation della guerriglia filo iraniana e anti occidentale, finanziata e sostenuta politicamente da Teheran, è destinata comunque a sovraesporre politicamente il regime, ne consegue che i suoi avversari regionali potrebbero rassegnarsi a un intervento occidentale, soprattutto nel caso che l’Arabia Saudita dovesse acquisire la certezza che gli iraniani siano a un passo dalla bomba. Certo, nulla di serio avverrà prima delle prossime elezioni americane, dato che Joe Biden è assolutamente intenzionato a non farsi coinvolgere in un’ennesima guerra in Medio Oriente, dando prova di grande equilibrio con risposte limitate alle provocazioni delle milizie fondamentaliste in Iraq e Siria contro basi americane. In definitiva, bisogna pur convincersi che il ricorso alla guerra (diretta e indiretta) è divenuta una soluzione come un’altra per regolare i rapporti di forza tra le due sfere globali, ormai nemiche, del Nord e del Sud del mondo. Con buona pace dei predicatori di pace a ogni costo.

Aggiornato il 01 febbraio 2024 alle ore 09:34