La realtà e le proiezioni

Quelle che nel suo editoriale pubblicato il 26 gennaio sul Corriere della Sera, per Antonio Polito, sarebbero “Le buone ragioni per fermare l’attacco a Gaza”, in realtà non lo sono affatto.

Il ragionamento di Polito è così riassumibile: la guerra a Gaza dura ormai da più di cento giorni, i morti sono venticinquemila (dei quali, per quanto siano da considerarsi attendibili i numeri forniti vanno comunque sottratti i miliziani di Hamas, circa diecimila) Hamas è lontano dall’essere sconfitto, e Israele sta perdendo la guerra sotto il profilo morale. Per quanto le ragioni di Israele nell’averla intrapresa siano giustificate è ora di chiuderla nell’unico modo razionale, avviando la nascita di uno Stato palestinese. Tocca a Israele fare questa mossa.

“Israele non ha ancora usato l’arma più letale di cui dispone contro Hamas: l’avvio di una trattativa per la nascita di uno Stato palestinese che riconosca lo Stato ebraico”.

Si tratta di un argomento trito, che continua a tenere banco e che è stato rilanciato dall’amministrazione Biden nonostante i celebri no arabi di Khartoum dopo la guerra dei Sei giorni, nonostante il fallimento degli Accordi di Oslo del 1993, nonostante il fallimento di Camp David nel 2000, quando, sotto l'egida di Bill Clinton, Ehud Barak offrì ad Arafat il venire in essere di uno Stato palestinese demilitarizzato che avrebbe incluso il grosso della Cisgiordania, la Striscia di Gaza e avrebbe avuto come capitale Gerusalemme Est compresi il 90, 91 per cento dei territori conquistati da Israele nel 1967 dopo la Guerra dei sei giorni, nonostante il fallimento di Taba nel 2001, e in seguito la proposta fatta da Ehud Olmert ad Abu Mazen nel 2008 ancora più generosa di quella di Barak, anch’essa respinta.

Ora, però, secondo Polito, le condizioni sono mature, proprio ora, dopo che 1200 cittadini israeliani sono stati massacrati da palestinesi provenienti da un ministato palestinese già esistente a Gaza dal 2007. Adesso, un nuovo Stato, più grande, comprendente anche le colline strategiche della Cisgiordania, e retto da Fatah, che non ha mai condannato l’eccidio del 7 ottobre, sarebbe per Israele la soluzione del conflitto.

Polito, oltretutto omette cosa dovrebbe accadere dentro la Striscia una volta che Israele interrompesse l’operazione militare. È evidente che Hamas continuerebbe a permanervi e, nel giro del tempo necessario si ricostituirebbe. Non solo, un ritiro di Israele da Gaza prima di avere smantellato la struttura operativa di Hamas significherebbe la vittoria di quest’ultimo e la sua definitiva consacrazione a intestatario principale della “causa palestinese”.

L’abbaglio di Polito è quello di tutti coloro che in questi lunghi anni del conflitto non hanno ancora capito o per incomprensione storico-politica del contesto, o per malafede, ma a Polito concediamo la buonafede, che la non volontà della nascita di uno Stato palestinese è araba e lo è per ragioni di natura religiosa e politica. Di natura religiosa perché sotto la prospettiva islamica, tutta la Palestina è considerata territorio appartenente all’Islam, politica, perché la nascita di uno Stato palestinese obbligherebbe de facto la dirigenza arabo-palestinese a riconoscere la legittimità esistenziale dello Stato ebraico e altresì obbligherebbe gli arabi palestinesi a doversene fare interamente carico rinunciando al loro lucroso ruolo di vittime in termini di sovvenzioni e consenso internazionale.

Questi sono, nella loro essenza, le ragioni che hanno impedito e impediscono il venire in essere di uno Stato palestinese, alle quali, sicuramente si assommano le giustificate e ben note resistenze di Benjamin Netanyahu, ancora più tali dopo il 7 ottobre e il sostegno assai ampio di cui Hamas gode in Cisgiordania secondo gli ultimi sondaggi, uno di un istituto di ricerca palestinese, l’altro qatariota.

A Polito e ad altri che, come lui, perorano la nascita di uno Stato palestinese ne consigliamo la lettura.

Aggiornato il 29 gennaio 2024 alle ore 12:31