Osservare gli atteggiamenti del Governo degli Ayatollah, sia nella politica interna che nelle strategie geopolitiche, fa nascere alcuni interrogativi: queste azioni sono frutto di una dissociazione geostrategica o di abilità geopolitiche eccessivamente sofisticate, lontane da una comune comprensione? L’Iran sta operando dovunque ci sia “fermento”: oltre che sostenere Hamas e Hezbollah, sia direttamente che indirettamente, ostenta la sua presenza dallo stretto di Hormuz allo Yemen; colpisce il Pakistan con fobiche motivazioni sulla presenza di terroristi anti-iraniani; cede ad accordi con Islamabad, dopo aver subito risposte crude, per non acuire lo scontro.
Eppure, questa ossessione presenzialista iraniana, motivata anche da un esaurimento della credibilità interna, è martoriata dall’ondata di assassini mirati commessi – dalla fine di dicembre fino a pochi giorni fa – dagli Stati Uniti e da Israele contro emblemi del cosiddetto “asse della resistenza”. Inoltre, le risposte degli Usa e della Gran Bretagna contro gli Houthi nello Yemen hanno palesato la fragilità della posizione di Teheran. Ricordo che la drammatica guerra civile che dal 2014 si sta combattendo in Yemen, tra gli Houthi e la fazione sunnita, era reciprocamente supportata dall’Iran e dall’Arabia Saudita, con la quale Teheran ha stipulato, a marzo dell’anno scorso, un accordo di pace con la mediazione della Cina.
Così, in un quadro di aggressività sconnessa, dove l’Iran cerca di dimostrare la sua forza, il regime degli Ayatollah il 15 e 16 gennaio ha sferrato una serie di attacchi in Iraq, Siria e Pakistan, tramite una batteria di missili balistici lanciati per rappresaglia agli attacchi sul suo territorio e contro i suoi alleati in Medio Oriente. Un palese errore di calcolo che ha provocato una crisi diplomatica con Islamabad che ha risposto con analoghi strumenti – missili balistici – sul territorio iraniano, il 18 gennaio. Inoltre, forti proteste sono giunte da Baghdad e da Damasco. Insomma, Teheran ha mostrato un nervosismo, prevedibile, abbandonando la cautela avuta a valle dall’attacco di Hamas contro Israele in quel famigerato 7 ottobre, dove l’obiettivo era di non cadere in quella che considerava una trappola israeliana, cioè uno scontro diretto con Israele e con gli Stati Uniti, cercando di disinnescare il rischio che Gerusalemme potesse ampliare il campo di guerra.
È molto probabile che l’Iran tenti di mostrare i muscoli per non rischiare un attacco diretto da parte israeliana e degli alleati; ma il progetto che prevedeva l’apertura di più fronti contro Israele, che andavano dalle alture del Golan a Gaza, alla Cisgiordania e al Libano, non sembra ormai realizzabile. Soprattutto considerando che il Golan e la Cisgiordania non hanno mostrato una preparazione adeguata. Infatti, questo programma di attacco su più fronti ispirato alla “dottrina dell’eliminazione di Israele”, dopo il 7 ottobre si è rivelato non fattibile. Così, si sono accesi i fronti in Libano, Iraq e Yemen, mentre quelli in Siria e Cisgiordania sono rimasti assopiti.
Ma la compulsione del decadente regime iraniano non ha limiti nella ricerca di “relazioni geopolitiche” che possano allungare la sua vita o illudere di poter garantire l’affidabilità politica. Infatti, approfittando del tramonto dell’influenza dei Paesi occidentali – Francia in testa – nel Sahel Teheran ha recentemente rafforzato i suoi legami con Mali, Burkina Faso e Niger. L’offensiva diplomatica iraniana, alla luce dei colpi di Stato in Mali, Burkina Faso e Niger, che a partire dal 2020 hanno scosso la situazione geopolitica nell’area saheliana occidentale, ha intrapreso la strada fino a pochi mesi fa battuta dalla Francia e da frazioni militari dei Paesi occidentali. Oltre alla Russia, diventata il principali partner di Bamako e Ouagadougou, ora anche l’Iran sta giocando le sue carte africane con l’obiettivo di ridurre il proprio isolamento sulla scena internazionale.
Questa offensiva diplomatica (iniziata ad agosto del 2023), rappresentata da Hossein Taleshi Salehani, ambasciatore iraniano in Mali, che ha incontrato il colonnello Malick Diaw, presidente della Cnt, Consiglio nazionale di transizione, organo legislativo della giunta del Mali, ha suggellato il successo iraniano i primi di gennaio, quando il Cnt ha annunciato l’apertura, in questo anno, di due facoltà dell’Università dell’Iran, di un istituto tecnico-professionale e di un altro con indirizzo informatico. Uno scenico successo iraniano ma che denota un corto orizzonte del Governo di transizione maliano, che se vede nella Russia un appoggio strategico valido, altrettanto non si scorge accettando la “cultura” fallimentare iraniana espressa dagli Ayatollah, in un contesto già di per sé nel caos. Ma ricordo che dal primo gennaio anche l’Iran è entrato nel Gruppo dei Brics, dove la Russia è un Paese fondatore. In Mali non si accede se Mosca non vuole.
Aggiornato il 25 gennaio 2024 alle ore 10:22