L’invasione russa dell’Ucraina, che ormai compie i due anni, ha dato il via a una redistribuzione del “potere” sul Pianeta. Questo orientamento ha avuto una accelerazione con l’apertura dell’altro conflitto tra Israele, Hamas e suoi alleati. La fisionomia di queste nuove guerre ha così assunto l’aspetto di conflitti globalizzati, superando quello degli scontri globali.
Sapendo cosa significa una “guerra globale”, che rappresenta la modalità di conflitto finora conosciuto, più articolato è il significato di “guerra globalizzata”. Brevemente, in questa tipologia di confronto, oltre a riscontrare i principi consuetudinari, si delineano parametri come la politica dell’identità piuttosto che obiettivi ideologici; si combatte per il controllo della popolazione, prevedendo l’espulsione forzata di ogni diversa “connotazione”. A ciò fa da cornice la disastrosa sproporzione tra vittime civili, oggetto di terribili violenze commesse contro indifesi e vittime militari. Il tutto in un’ottica adeguata al progetto di omogeneizzazione etnica o “culturale”.
Dal punto di vista delle risorse impegnate, si assiste al sempre più frequente utilizzo di combattenti fuoriusciti da forze regolari, come polizia o esercito, ma anche da gruppi armati privatizzati e privati (i Wagner sono un esempio). In alcune aree geografiche, soprattutto localizzate in Africa, si riscontrano bande armate assoggettate ai signori delle guerre locali, o comuni bande criminali, diffuse ovunque ma con recenti esempi di operatività in Sudamerica. Questo snodato sistema di combattimento tende a complicare la percezione della demarcazione tra combattenti, mercenari, e civili, ma anche tra chi aggredisce e chi è aggredito. Insomma: distinguere gli amici dai nemici. Inoltre, le guerre che sono in atto stanno stimolando una parcellizzazione degli scontri che, nel caos organizzato e globale dei coinvolgimenti bellici, portano alla proliferazione dei fronti.
È esattamente nell’ambito della riparametrazione del potere globale che si distinguono tali evoluzioni. Così, l’anno appena passato ha reso coscienti i leader euro/occidentali dell’impossibilità di controllare le dinamiche di due “continuità” di crisi: quella della guerra in Ucraina, appesantita dal tempo quando si sperava in una conclusione e il rinvigorimento della “questione palestinese”, che con i “processi di normalizzazione dei rapporti” di Israele con importanti Paesi arabi si riteneva, quantomeno, congelata. Ora, nel nuovo anno, l’articolazione del conflitto globalizzato si potrebbe diramare maggiormente, questa volta in ambito teatrale “marino”. Il Mar Nero, dove già le acque sono agitate, è diventato il campo di battaglia dove l’Ucraina ha registrato i suoi successi più notevoli; poi abbiamo il Golfo arabo-persico, lo Stretto di Hormuz, dove l’Iran tenta il blocco o il controllo assoluto delle acque; lo Stretto di Bab al-Mandab, dove l’Occidente sta provvedendo a frenare gli sciiti filo-iraniani Houthi (già attori, dal 2014, di una guerra civile contro i sunniti filo sauditi, che ha condotto lo Yemen nella morsa di un disastro umanitario dai connotati raccapriccianti); il Mar Cinese dove l’ombra della Cina, con un’aggressività in crescita, tenta di oscurare Taiwan, a cominciare dal controllo dello “Stretto”.
Sono questi scenari che sigilleranno una revisione del potere, anche a causa delle elezioni negli Stati Uniti a novembre di questo anno, che potrebbero vedere in Donald Trump il prossimo presidente. Tale eventualità potrebbe portare ripercussioni immediate su questi tre palcoscenici. Perciò l’Europa deve accelerare un processo di autonomia geostrategica che sia necessario soprattutto per una contestualizzazione e un adattamento ai nuovi “pesi geopolitici”. Un’Europa, cioè, che deve fare i conti con la prossima politica statunitense, qualsiasi essa sia. E che deve confrontarsi con il colosso dei Brics – Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica – allargato dal primo gennaio a Emirati Arabi Uniti, Egitto, Arabia Saudita e Iran. Quindi, questa spinta di criticità diffuse si caratterizza con una proliferazione di quelle ostilità, anche non di grande peso geostrategico, che complessivamente modificano gli equilibri di potere. E trasformano gli scenari politici in varie aree geografiche.
Ma cosa fa l’Europa? Forse agisce come l’orchestra del Titanic? A volte sembra che l’unico obiettivo sia quello di mantenere il proprio “stile di vita”. Casomai abbracciando la dottrina filosofica-teleologica che vede nel “finalismo” il tracciato. Ossia un abbraccio tra volontà razionale con gli effetti di azioni involontarie. Dove, però, il tutto realizza comunque un fine, in un intreccio di conflitti straordinari che sta riparametrando il Potere globale.
Aggiornato il 23 gennaio 2024 alle ore 09:43